Un attimo e Tomb Raider cambia. Per sempre. Pochi minuti di full motion video, dove Square Enix si conferma regina incontrastata della grafica pre-rendered, qualche minuto di gameplay intensivo prima che irrompa sullo schermo il logo di una saga culto del videogioco a cavallo del “nuovo” millennio… E Lara diventa, viva, reale, umana. Imperdibile. Già, perché un tassello fondamentale dell’intrattenimento elettronico in tre dimensioni (a pari merito con il monumentale Super Mario 64 di Nintendo) si reinventa coraggiosamente, diciassette anni dopo il suo clamoroso debutto.
Una naturale e inevitabile evoluzione, a detta di molti. Peccato che il coraggio di andare contro a stilemi e caratteristiche consolidate e rodate nel giro di oltre un decennio, non sia qualità di molti. Anzi, neanche della maggior parte dei franchise maggiormente riconosciuti e affermati del settore videogiochi. Per fortuna, lo stupore non s’interrompe alle nuove fattezze della giovanissima Lara Croft o all’incandescente splendore poligonale inscenato da un Crystal Engine adeguatamente modificato. La meraviglia che il reboot di Tomb Raider fa salire sul palcoscenico, infatti, è tutta “questione di emozioni”. Già, proprio quelle. A pensarci bene, nel lontano 1996 l’affermarsi del videogioco in qualità di “arte interattiva” creò risonanze determinanti per lo sviluppo del medium fino ai giorni nostri.
E Lara si ritrovò con i piedi impiantati proprio sul punto zero dell’epicentro di questo terremoto mediatico, spalleggiata dall’idraulico italiano più famoso della storia. “Una nuova icona è nata”, esclamarono i giornalisti di tutto il mondo. Un’icona che però oggi si tramuta in sopravvissuta, ribelle, incauta e inesperta donna, con un emisfero femminile che prende forma insieme a un ammasso di poligoni, texture, shader ed effetti particellari e di luce di ogni genere… ed è quella la reale magia firmata Crystal Dynamics.
Appena naufragati su di un’isola deserta buia e tempestosa, infatti, le emozioni che viaggiano senza fili dal monitor al pad fino a raggiungere i nostri sensi, ora accerchiati da una miriade di stimoli accurati, studiati e sempre motivati, vibrano e colpiscono in volta, risvegliandoci dal torpore che accomuna gran parte (ahimè) delle attuali produzioni mainstream. A volte rozzo e non sempre tecnicamente ineccepibile, il gameplay di Tomb Raider appare però plasmarsi alla perfezione sul vero asso nella manica di questa rinascita made in Square Enix: il fattore emotivo. “Stupisce riuscirci a stupire ancora”, infatti, dopo anni di asset meticolosamente studiati, archiviati e tempestivamente riscaldati al microonde per il prossimo titolo di gran richiamo, condivisi con l’immaginario collettivo del videogame moderno.
Persino le vibrazioni del dispositivo di controllo diventano parte integrante dell’effetto sorpresa di ogni singola sequenza action del gioco, dove sussulteremo per la sorpresa, a volte urlando e imprecando davanti ai nostri schermi. Come un tempo insomma, quando rappresentavano davvero una novità e un valore aggiunto su cui convogliare idee interessanti. E mentre Lara, scivola, cade, si sbuccia un ginocchio o si rompe una clavicola, tra alcune delle death sequence più cruente mai viste per questa saga, soffriremo con lei, sentiremo la sua disperazione, percepiremo i suoi sforzi mentre scaliamo un dirupo tra fuoco, fiamme e venti impetuosi. Ci commuoveremo davanti alle sue lacrime imprimendo la nostra frustrazione sugli stick analogici, intenti a scappare a gattoni dalle grinfie di uno spietato gruppo di selvaggi sullo sfondo di un opprimente scenario da Apocalypse Now.
Ogni suo singhiozzo, respiro affannoso oppure urla di dolore evidenzierà le immagini su schermo, rendendola l’alter ego femminile più credibile degli ultimi tempi, con un’esperienza di gioco che come un wormhole di Donnie Darko nasce da una costola d’Indiana Jones, passa per il torace di una prosperosa Lara Croft, attraversa la maglietta sgualcita di Nathan Drake e ritorna infine all’archeologa più amata dai videogiocatori, avvinghiandosi attorno alle corde del suo arco e portando con sé tutto il sapere dell’evoluzione dell’action adventure in tre dimensioni che ha caratterizzato l’ultimo decennio. Mentre risaliamo però le profondità della terra afferrando radici e affondando i piedi nel fango, cadiamo rovinosamente tra i detriti di un aereo precipitato o ci lanciamo in parapendio su enormi vallate, troveremo ben più di un adattamento d’idee e trovate già standardizzate per il genere in questione: Tomb Raider rappresenta un punto di svolta (o di rottura, se preferite) con la saga di Crystal Dynamics proprio come lo fu Resident Evil 4 per l’opera di Shinj Mikami.
Ambientazioni vaste e “free-roaming” quanto basta, potenziamenti mai fini a se stessi, sezioni da survival game, quick time, momenti da sparatutto con telecamera a spalla, sfide, segreti e bonus, enigmi ed equazioni fisiche al limite del fotorealismo (giocherellare con il fuoco per credere). E appena l’elemento fantasy entrerà in scena (come in ogni buon TR che si rispetti), la mano di Cory Barlog (Mr. God of War) donerà ancora più carattere all’intera opera, rendendola quindi mai riempitiva, ripetitiva o banale esercizio di stile. Anche qui, come l’elemento sorpresa, la capacità di non annoiare mai il giocatore rappresenta una qualità rara e d’incalcolabile valore, soprattutto per un titolo di fine generazione come quello di Hughes e compagni.
E mentre ci addentriamo negli strati della nuova avventura di Lara, che rivela man mano la sua natura come una matrioska, nella testa rimbombano ancora le parole dell’indimenticabile dichiarazione provocatoria di Gard sulla genesi di Lara del 1996, quando rivelò al mondo che dovendo guardare un sedere per oltre quindici ore di gioco avevano preferito che si trattasse di quello di un’avvenente ragazza. Ma se il videogioco ci ha messo sedici anni per abbandonare il maschilismo di taglia nerd e consegnarci un’avventura di Lara capace di colpire nel profondo, farci riflettere e rendere palpabile ogni emozione, ha reso anche la signorina Croft ancor più provocante e attraente di prima, che abbandona il “manichino” che l’ha portata alla notorietà per toccare le corde del nostro animo. Tanto che qualcuno potrebbe quasi abbandonare il pad per allungare una carezza verso uno schermo intermittente, avvolto dall’intima oscurità della sua “cameretta da gioco”.