Se Gene Roddenberry fosse vivo, sarebbe fiero di loro. Un manipolo di uomini, si è organizzato e circa un anno fa ha cominciato a pianificare, e realizzare, l’esplorazione dello spazio profondo per giungere finalmente “là dove nessuno è mai giunto prima”. Non sto parlando di una missione della NASA anche se, come vedremo, l’Ente Nazionale per le attività Spaziali e Aeronautiche è indirettamente coinvolto nel progetto, vi sto raccontando di un sogno, il sogno di uomo che, sulle tracce dei grandi esploratori del passato, ha messo in piedi un’organizzazione da far invidia ai migliori centri spaziali.
Ma diamo un contesto a quanto detto finora. Non vi sto parlando di missioni multimilionarie, né tanto meno di scienza spaziale, vi sto parlando di videogiochi, vi sto parlando di Elite: Dangerous. Sorpresi vero? Dovreste fare un giro sul forum di The Great Expedition per scoprire con quanta convinzione e quanta serietà questo manipolo di circa 1000 uomini si è dato un’organizzazione. Ognuno con il suo ruolo, ognuno con la sua precisa destinazione.
Ha dichiarato la mente dietro quest’operazione, Steve Wilds:
Ci sono tantissimi astronomi dilettanti che non desiderano altro che vedere con i loro occhi ciò che per anni hanno potuto osservare solo attraverso le lenti di un telescopio.
Intervistato via mail da Kotaku, Wilds ha raccontato come, grazie al supporto di aspiranti esploratori come lui, il sogno è piano piano diventato realtà. Le centinaia di milioni di stelle e galassie presenti nell’universo di Elite sono un territorio inesplorato che per molti vale la pena di svelare, abbandonando del tutto le vesti canoniche che i ragazzi di Frontier avevano appositamente costruito per i giocatori . Nessun combattimento e nessuno scambio commerciale può valere il prezzo di un biglietto per quel meraviglioso cinemascope che è la cabina di comando di una navicella spaziale. Come dar torto a questi ragazzi! Basta dare un’occhiata alle immagini postate sul loro forum, per sentirsi teletrasportati all’interno di una delle pellicole che negli ultimi anni ha fatto sognare molti sci-fi lover.
Ci sono uomini che hanno puntato al cuore della nostra galassia per trovarsi faccia a faccia con Sagittarius A*, il buco nero che si suppone sia situato al centro della Via Lattea. Ci sono uomini che invece, hanno costruito il loro percorso per nebulose lontane, come migliaia di anni luce. E non ci sorprende sapere direttamente dalla bocca di Wilds che coinvolti in questo progetto ci sono anche ex-scienziati dell’Ente Spaziale Americano, uno su tutti Gryffin du Verd.
Ho trascorso la maggior parte del tempo a pianificare la missione nei minimi particolari. I modelli di navi presenti nel gioco non reagiscono alle meccaniche orbitali dei corpi celesti così come reagirebbe uno shuttle. Ma riescono comunque ad avere significative influenze sul moto della navicella, rallentandola o in alcuni casi generando particolari effetti fionda, come previsto dalla seconda legge di Keplero. La disposizione mentale necessaria [per portare avanti un discorso di questo tipo] non è affatto diversa da quella che applicavo quando lavoravo alla NASA.
Sì, perché Frontier Developments non ha creato questi infiniti mondo sulla base di caratteristiche estetiche, bensì ha sviluppato un algoritmo che generasse in modo procedurale nuove stelle e nuovi pianeti sulla base di quelle stesse leggi che, oggi, i nostri astrofisici stanno ancora studiando. Le tecnologie ci concedono molto di più di quanto 15 anni fa avessimo ipotizzato, e non sorprende scoprire che, per esempio, dietro il bellissimo Interstellar di Nolan ci sia il lavoro sui wormhole di un noto fisico teorico, Kip Thorne. E, ora più del passato, siamo consci del fatto che niente sa mozzare il fiato come la natura stessa.
E non ci sorprende scoprire che il vero cuore di The Great Expedition, sono quegli uomini, definiti da Wilds “pathfinder”, che si avventurano nello spazio profondo per creare nuove rotte che “altri possono solo seguire”. Questi novelli Cooper (l’astronauta protagonista di Interstellar) esplorano regioni dello spazio di cui non si conosce ancora la composizione e, spinti dalla loro stessa curiosità, fotografano e annotano per riportare quanto visto a tutti gli altri; creando, di fatto, un modo del tutto nuovo di sperimentare Elite: Dangerous. Da MMO sul trading e sui combattimenti spaziali a simulazione esplorativa in solitaria. E tutto questo, ancor prima che il gioco venisse reso disponibile al grande pubblico.
Trovo assolutamente stimolante come, spesso, i videogiochi vengano sfruttati (in senso positivo) in modi del tutto differenti a quelli ipotizzati dagli stessi sviluppatori. È nella natura umana sperimentare nuove forme di aggregazione e comunicazione, ma nessun medium prima ha messo nelle mani di milioni di persone uno strumento così versatile e flessibile come il videogioco. A mio parere, il videogioco è l’unica forma espressiva che richiede una partecipazione diretta del fruitore ed è proprio questo il nodo del discorso: ogni giocatore è allo stesso tempo spettatore, attore principale e autore dell’esperienza.
Quando si ha per le mani un titolo come Elite: Dangerous ci si rende conto che non esiste un solo modo di fare narrativa. Non ditemi che quella che stanno facendo Wilds e soci non sia una grande storia, in senso totale. Probabilmente una storia non diversa da quella scritta da Armstrong quando, per la prima volta, mise il suo piede sul suolo lunare. Certo, parliamo di storie “digitali”, ma dov’è la differenza? Verne non ha raccontato sulla carta di un razzo che sarebbe atterrato sulla luna? Roddenberry non è stato capace di descrivere con le immagini molte delle tecnologie che noi tutti utilizziamo quotidianamente?
E ora, abbiate il coraggio di convincermi che i videogiochi, e le storie storie che tutti noi videogiocatori creiamo, non sono un serio spunto di riflessione!
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