Ci troviamo ancora nella seconda metร degli Anni ’80, siamo sempre nelle sale giochi giapponesi (giร dette “game center”, dizione poi contratta nella nipponica crasi “geesen”). Al termine dello scorso articolo, avevamo osservato due nomi che avrebbero lasciato una marcata impronta in quel lustro e poi ancora nella decade a venire: “Nishiyama Takashi” e il curioso aggettivo “supercorazzato”. Vediamo dunque di indagarne significanza e valenza. Il primo tra i due, come anticipavamo, รจ stato ed รจ a tutt’oggi uno sviluppatore di videogame geniale quanto innovativo: talvolta accreditato anche col nomignolo d’arte di “Piston Takashi”, la sua visione videoludica verteva sulla creazione di giochi che in ogni caso โ persino nel genere fighting โ vantassero un impianto estetico e narrativo degno di un film. In un’epoca in cui nel mercato giapponese degli arcade game ormai spiccavano giร numerose e valenti software-house in competizione tra loro, quali Sega, Taito, Konami, Namco, Jaleco e tante altre, il dinamico “Piston”, dopo aver confezionato per la Irem il grande successo di Spartan X (in Occidente: Kung-Fu Master), passรฒ alla Capcom… dove nel 1986 sfornรฒ subito un altro gioco di combattimento che si sarebbe rivelato nuovamente provato di grande portata seminale. Si trattava di Tatakai no Banka (in Occidente: Trojan), oggi considerato l’erede putativo di Spartan X, ma non piรน ispirato alle atmosfere degli hong-kong movies in stile Bruce Lee o Jackie Chan, come il suo detto precedente, ma a quelle degli street gang movies americani. In Giappone, pellicole quali The Warriors (1979), o Escape from New York, (1981) avevano generato un nuovo immaginifico fatto di violenza metropolitana e suburbana, talvolta persino post-apocalittica (si pensi anche a Mad Max, 1979), che stava influenzando l’avanguardia dei media giovanili nipponici (si pensi anche a Hokuto no Ken, 1983, 1984).
In altre parole, la “lotta da strada” era praticamente diventata di moda, come una sorta di street style che dilagava da un giร postmoderno Occidente al forse piรน ingenuo Oriente: a Osaka era ormai fiorito un quartiere giovanile di tendenza eloquentemente chiamato proprio AmerikaMura (lett: “Villaggio America”), dove le influenze hollywoodiane e statunitensi in generale, dalla musica all’abbigliamento, si fondevano in un modo teppistico di ribellione estetica e sociale non a caso denominato “yanki” (ovviamente dal termine inglese “yankee”). In un tale clima subculturale, Nishiyama spinse la sua visione sino a creare nel 1987, sempre per la Capcom, un gioco di “combattimento a incontri” (kakutou taisen), ossia “uno-contro-uno”, esplicitamente dedicato ai “lottatori da strada”: Street Fighter.
Suona familiare? Qui perรฒ parliamo del primo capitolo della saga, senza nessun numero cardinale a completarne il titolo. Va anzi detto che non si trattava neppure di un capostipite del genere: dalle simulazioni pseudosportive di arti marziali (KarateDou, Technลs Japan, 1984), a titoli giร piรน fantasiosi (Yie Ar Kung-Fu, Konami, 1984), negli anni subito precedenti si erano giร visti “illustri” (e giร citati) predecessori di pur grande richiamo, eppure il primo Street Fighter, con la sua grafica piรน dettagliata e dedicata alla caratterizzazione dei personaggi, mostrava un’evoluzione terribilmente moderna, in puro stile “Piston”: Ryu e Ken si sfidavano in incontri-scontri in giro per il mondo, scoprendo e sconfiggendo lungo la loro strada vari avversari profondamente rappresentativi delle loro dichiarate nazioni di provenienza. Ogni personaggio, insomma, non era semplicemente l’incarnazione della sua tecnica di combattimento, ma anche della sua cultura sociale di provenienza: un monaco buddhista e un ninja per il Giappone, due tipici maestri di kung-fu per la Cina, un biondo kickboxer e un pugile di colore per gli Stati Uniti, un elegante maggiordomo e un hooligan per l’Inghilterra, due lottatori di muay-thai per la Thailandia. E anche i fondali dedicati a ciascun lottatore ne rispecchiavano l’estrazione individuale, diventando pressochรฉ delle scenografie: da Mount Rushmore alla Grande Muraglia, eccetera, eccetera. Forse il gioco in sรฉ non era poi cosรฌ solido, ma la volontร dell’autore di aumentarne la profonditร e la complessitร in ogni aspetto, scenico o ludico, gettava senz’altro molte delle basi in un futuro a tutt’oggi in corso โ basti pensare all’introduzione degli “attacchi speciali”, come il celeberrimo hadouken dei protagonisti, che Nishiyama derivรฒ dal celeberrimo cannone a movimento ondulatorio (“hadou”, appunto) della Corazzata Spaziale Yamato. Ancora una volta, si vede la volontร dell’autore di connotare i suoi videogiochi con elementi propri dell’intrattenimento narrativo, per renderli non solo “divertenti”, ma altresรฌ “coinvolgenti” e “appassionanti”, approfondendo soprattutto le caratterizzazioni dei personaggi.
A questo punto, i lettori piรน intuitivi staranno forse pensando che l’intera saga di Street Fighter sia stata pensata e diretta da Nishiyama Takashi, ma in effetti รจ tutto il contrario: il creatore del primo capitolo lasciรฒ la Capcom giร prima della pubblicazione del successivo capolavoro Final Fight, che nel 1989 raggiunse forse l’apice del genere dei “picchiaduro a scorrimento laterale” e che in effetti si sarebbe in origine dovuto intitolare Street Fighter ’89 (รจ noto del materiale promozionale ufficiale con questo primo titolo). In questo gioco, tutta l’ambientazione, la trama, i personaggi hanno un sapore cosรฌ cinematografico (derivato soprattutto dal film americano Street of Fire) e subculturale (con infiniti riferimenti a icone internazionali della musica rock e metal, o del wrestling) da far davvero pensare a un progetto tipico di Nishiyama Takashi, eppure il suo nome non figura tra i credits finali. In effetti, a quei tempi il vulcanico “Piston” era giร nuovamente migrato in un’altra azienda, ben piรน piccola ma ancor piรน aggressiva, emergente e sperimentatrice delle precedenti: la Snk, acronimo di “Shin Nihon Kikaku”, ossia “nuovo progetto giapponese”. Un nome che era una garanzia d’avanguardia, forse, e difatti Nishiyama Takashi vi avrebbe trovato l’ambiente ideale per realizzare le sue ambizioni “supercorazzate” โ un termine veramente esagerato, poichรฉ in realtร indicativo di una classe di navi da guerra piรน che pesanti, ma che in senso figurato aveva giร fatto capolino negli slogan pubblicitari proprio del primigenio Spartan X. Come dire: davvero una fissazione e marchio di fabbrica dell’autore, i cui fulgidi frutti saranno indagati dal nostro prossimo appuntamento e per molti a venire…
Articolo di Gualtiero Cannarsi
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