L’annuncio di Emio – L’uomo che sorride Famicom Detective Club, avvenuto lo scorso luglio, ha suscitato un clamore inusuale per un titolo Nintendo, giustificata da un piccolo dettaglio: trattasi di una delle rare, rarissime produzioni da lei distribuita ad aver ricevuto una classificazione PEGI 18, laddove lo sviluppo resta invece nelle mani di MAGES, che ha già realizzato i remake dei primi due Famicom Detective Club, con il supporto della divisione EPD. L’atmosfera a tinte fosche, unita a tematiche adulte come violenza, abusi domestici e suicidio, in netto contrasto con i titoli tipicamente più accessibili del colosso giapponese, è riuscita da subito a catturare l’interesse di un pubblico più maturo. Yoshio Sakamoto, noto per aver lavorato ai precedenti capitoli della serie, ha creato una leggenda urbana inquietante che fa da sfondo all’avventura: Emio, un assassino che offre alle sue vittime un inquietante “sorriso eterno”. Due anni fittizi dopo gli eventi di The Missing Heir e The Girl Who Stands Behind, e ben 30 reali dal rilascio dell’ultimo episodio del franchise (BS Tantei Club: Yuki ni Kieta Kako, lett. BS Detective Club: Il Passato Svanito nella Neve, rimasto inedito in occidente) sul rivoluzionario Satellaview, la periferica per Super Famicom che consentiva di fruire di contenuti scaricabili tramite connessione satellitare, torniamo a vestire i panni del giovane assistente dell’Agenzia Investigativa Utsugi, e dovremo districarci tra omicidi, misteri, indizi fugaci e ragionamenti deduttivi, immersi in un’atmosfera sempre più cupa e opprimente. Il gameplay, fedele alla tradizione della serie, si basa sull’esplorazione di ambienti dettagliati, sull’interrogazione dei testimoni e sulla raccolta di prove, un’esperienza coinvolgente che, se vissuta nel modo giusto, promette di tenere i giocatori con il fiato sospeso fino all’ultima scena. Ma quale sarebbe il modo giusto di affrontare le indagini all’interno di Emio?
Emio – L’uomo che sorride: hai l’aria triste
Per spiegarlo, serve fare una digressione e, soprattutto, un passo indietro fino agli albori del genere in Giappone, quando Yuji Horii (sì, proprio il papà di Dragon Quest) rimase folgorato dalle avventure testuali occidentali e decise di programmarne una per conto suo, interamente in BASIC. L’anno era il 1983, e nella folta libreria del NEC PC-6001 vide quindi la luce il seminale Portopia Renzoku Satsujin Jiken (Il Caso degli Omicidi Seriali di Portopia), forse un pelo troppo primitivo per gli standard odierni ma considerato, a ragion veduta, uno dei giochi più influenti in assoluto nella storia videoludica giapponese. L’eredità di Portopia gettò le basi per due nuovi generi in patria: i giochi di avventura, o ADV, e le visual novel. Nintendo, intuendo il potenziale di questo nuovo filone, decise di cimentarsi con un’opera che potesse competere con le tendenze del momento e nacque così il primo episodio di Famicom Detective Club, un’esperienza investigativa che ha segnato un’epoca. Sviluppato da Nintendo R&D1 e sceneggiato da Yoshio Sakamoto, che aveva già collaborato a grandi successi quali Metroid e Kid Icarus, il gioco si discostava dal contesto fiabesco di Famicom Mukashi Banashi: Shin Onigashima (lett. Racconti Popolari per Famicom: La Nuova Isola dei Demoni), primo esperimento narrativo della casa di Kyoto, per addentrarsi in circostanze più torbide e sibilline, ispirate in gran parte ai thriller di Dario Argento. Il gameplay si basa su un sistema di comandi a menu, tipico degli ADV dell’epoca, arricchito da un’interfaccia (poco) intuitiva che permette di esplorare gli ambienti e interagire con gli oggetti. Una meccanica particolarmente interessante è quella del comando “Ricorda”, che ci consente di ripercorrere i momenti chiave della storia e ricostruire mentalmente gli eventi ma che, se da un lato aiuta a mantenere il filo del discorso, dall’altro può risultare un po’ invadente, interrompendo talvolta il flusso narrativo.
L’idea di Horii per il suo Portopia, accolta a braccia aperte anche da Famicom Detective Club, era quella di un’avventura che procede (anche) mediante l’interazione tra umano e computer. Di solito, tendiamo a vedere i giochi di questo genere come dotati di due modalità separate: le conversazioni e i puzzle, con le prime deputate a far avanzare la storia mentre i secondi a proporre sfide divertenti da risolvere lungo il percorso. Molti ADV nipponici funzionano in questo modo, basti pensare a Hotel Dusk, Another Code, Ace Attorney, Danganronpa o Professor Layton, che forse presenta la separazione più netta tra dialoghi e giocabilità basata sugli indovinelli. Ma nel modello pensato da Horii non è necessario che vi sia una distinzione così netta tra i due: in Portopia, infatti, sono proprio gli scambi di battute tra i personaggi a rappresentare gli enigmi, e l’interfaccia con cui inseriamo i comandi è l’unico strumento per risolverli. Poiché attingono a piene mani dal loro progenitore spirituale, anche i vari capitoli di Famicom Detective Club, incluso il qui presente Emio – L’uomo che sorride, si basano principalmente sull’affrontare situazioni conversazionali uniche, dove il nostro obiettivo è capire come utilizzare il breve elenco di comandi disponibili per averne ragione. Poniamo il caso di trovarci di fronte un potenziale testimone che sembra riluttante ad aprirsi con noi e che non fornisce alcuna risposta utile qualunque sia la domanda che gli poniamo: l’arcano consiste nel riconoscere che si trova a disagio in mezzo ad altre persone, un dettaglio della sua personalità che potrebbe essere emerso dai nostri precedenti incontri e che possiamo ritrovare nel taccuino consultabile in qualsiasi momento, e nell’identificare di conseguenza qualcuno che sta assistendo, volontariamente o meno, alla nostra piccola riunione. Non resta dunque che spostarsi in un luogo più appartato, farci seguire dall’interlocutore e riprendere dal punto in cui la sua apprensione gli aveva impedito di seguitare. Una delle parti più divertenti di Famicom Detective Club è proprio la ricerca dell’approccio giusto per la persona con cui stiamo parlando: come possiamo confrontarci con una poliziotta introversa rispetto a un uomo d’affari sospettoso? Qual è il modo migliore per gestire un discorso con un ubriaco? Quale punto di contatto possiamo trovare con una studentessa loquace ma inaffidabile? Non tutte le conversazioni richiedono queste catene di ragionamenti, alcune sono semplicemente un modo per raccogliere informazioni, ma la maggior parte di esse ruota intorno alla comprensione del contesto, all’analisi dei personaggi presenti e dell’ambiente circostante, e alla scelta consequenziale dei comandi.
Ma non dovrai piangere mai più
Famicom Detective Club non è un semplice gioco di avventura; è un’esperienza narrativa dove il giocatore diventa parte attiva della storia, interagendo direttamente con il mondo di gioco e i suoi personaggi. A differenza di molti altri titoli del genere, non si limita a presentare puzzle isolati da risolvere, ma ci invita a prendere parte ad una serie di dialoghi profondi e significativi perché le parole sono la nostra arma più potente. Come specificato in apertura, ogni singolo confronto con chiunque incontreremo durante le indagini va considerato un puzzle da risolvere, dove le decisioni hanno un certo impatto sugli eventi successivi. Non si tratta solo di selezionare l’opzione “corretta”, ma di comprendere le sfumature del linguaggio, le dinamiche tra i personaggi e le implicazioni di ogni scelta: sperimentare con i comandi, anche quelli apparentemente insignificanti, può condurre a risultati inaspettati e rivelare nuove sfumature dei personaggi e della trama. Questo approccio libero e non lineare incoraggia in parte la rigiocabilità, invitandoci ad approfondire anche i dettagli apparentemente slegati al caso che stiamo seguendo, per quanto l’intero racconto non presenti diramazioni di sorta e si muova lungo binari ben definiti. Nella maggior parte dei casi, il divertimento deriva proprio dalle prove effettuate con i comandi adoperabili, e dalla sensazione di appagamento che scaturisce quando riusciamo a seguire una determinata sequenza di azioni, quando accade qualcosa di inaspettato, o quando otteniamo una delle risposte che stavamo cercando. Cosa succede se invece ci blocchiamo, se il nesso logico che stavamo seguendo non sembra corrispondere a ciò che intendeva lo sceneggiatore, o se non siamo proprio in grado di capire qual è la concatenazione opportuna di mosse da selezionare per proseguire? Nei giochi con un’interfaccia aperta come Emio e i Famicom Detective Club in generale, è una circostanza destinata a verificarsi di tanto in tanto, ma è comunque difficile rimanere bloccati a lungo perché di fatto non è possibile “perdere” la partita in termini convenzionali, salvo rarissime eccezioni, dunque la tenacia finisce sempre per dare i suoi frutti.
Di contro, dopo il lancio del suo Portopia, lo stesso Horii aveva riconosciuto che un simile approccio prestava il fianco ad un impiego sconsiderato della “forza bruta” da parte del giocatore, che avrebbe potuto avanzare per tentativi senza impegnarsi a cogliere la razionalità intrinseca dell’avventura. Inutile specificare che, se giocato in tal modo, Emio – L’uomo che sorride può venire a noia in una manciata di minuti ed essere percepito come uno spreco di tempo, un po’ come leggere direttamente l’ultimo capitolo di un buon libro senza prestare attenzione alle altre centinaia di pagine che lo compongono. Viceversa, se consideriamo i dialoghi non come dei semplici e trascurabili intermezzi scribacchiati ma come interazioni provviste di comandi malleabili e influenzati dal contesto, allora inizieremo ad entrare nello spirito giusto e lasciarci davvero coinvolgere. Peraltro, nei Famicom Detective Club, al pari dei loro analoghi, arrivare in fondo al racconto non è l’unico obiettivo perseguibile: sono avventure pensate per venire assaporate con le giuste tempistiche, non per essere risolte come fossero equazioni matematiche. Saggiando delle azioni improbabili sui personaggi potremmo assistere a reazioni inusitate, magari drammatiche o più spesso divertenti, che ci aiuterebbero a comprendere meglio il loro carattere e il mondo in cui ci muoviamo. Come accennato poc’anzi, l’intenzione di Horii che Sakamoto ha colto in pieno è sempre stata quella di instaurare una reciproca scambievolezza tra utente e macchina, che potesse risultare quanto più spontanea possibile. Perciò, è importante concentrarsi non tanto su quello che dovremmo fare, quanto su come vogliamo comportarci, e saranno di conseguenza l’attenzione, l’impegno e il buon senso, nonché un pizzico di fortuna, a guidarci lungo la strada giusta.
Perché io posso regalarti un sorriso eterno
Tornando a parlare nello specifico di Emio, se abbiamo già giocato gli originali Famicom Detective Club o i loro eccellenti remake per Switch, sappiamo già cosa aspettarci: un titolo dal ritmo ponderato, meticoloso sia nella scrittura che nella presentazione, nel quale dovremo raccogliere indizi e porre le domande giuste per recuperare il prossimo tassello custodito da di un cast meravigliosamente eterogeneo di personaggi più o meno stravaganti. Così come nei rifacimenti dei predecessori, il nuovo stile grafico contribuisce ad attenuare la sensazione di macchinosità connaturata all’interfaccia, un difetto sistemico preservato anche nel nuovo episodio. Ma la storia che si dipana davanti ai nostri occhi è genuinamente apprezzabile, presentata come fosse un manga composto da immagini in perpetuo movimento, un modo encomiabile per spezzare la consueta staticità del genere. Anche l’atmosfera fuori di testa è perfetta, con una sorprendente quantità di colore per un gioco horror, e luoghi normali diurni che in qualche modo trasmettono una strana, inquietante aria intorno a loro nelle prime ore della storia. L’inquietudine celata dietro l’ordinario, una formula davvero difficile da completare che Sakamoto sembra padroneggiare con estrema naturalezza. Il doppiaggio completo in giapponese, combinato con le brillanti animazioni e una sceneggiatura di tutto rispetto, permette di ambientarsi in men che non si dica tra gli eventi inquietanti che circondano la leggenda metropolitana di Emio e gli omicidi che minacciano di ripetersi. Senza rivelare troppo della trama, l’abbrivio ci vede infatti prendere parte alle indagini dell’omicidio di un ragazzo di 15 anni, morto in circostanze simili a quelle in cui vennero ritrovate le vittime di un serial killer che la polizia non è mai riuscita a catturare, e che 18 anni addietro svanì letteralmente nel nulla. Assieme ai colleghi dell’Agenzia Investigativa Utsugi, proprietà dell’omonimo detective privato per il quale lavoriamo, ci recheremo così giorno per giorno ad esplorare luoghi e interrogare persone potenzialmente collegate ai fatti, o quantomeno informate sugli stessi, con gli occhi sempre aperti alla ricerca di un particolare che potrebbe fare la differenza. Svolgendosi a poca distanza temporale dai predecessori, la tecnologia presente in Emio – L’uomo che sorride è quella dei primissimi anni ’90, perciò non potremo contare sull’ausilio di chissà quali dispositivi avveniristici che non siano un primitivo cellulare e la potenza delle nostre meningi.
Saremo pertanto in grado di chiedere ai presenti in una determinata scena la loro opinione dettagliata sugli eventi, esplorare liberamente le splendide ambientazioni con una lente d’ingrandimento per cercare indizi, raccogliere e ispezionare oggetti, usare il telefono a meno che non sia scortese o non vi fosse qualche ulteriore impedimento, sfogliare un taccuino in perpetua espansione pieno di nomi e informazioni utili e persino… “pensare”, un modo originale per ricevere un’utile imbeccata qualora ci trovassimo in un vicolo cieco. Tutte le opzioni disponibili vengono mostrate nell’angolo in alto a sinistra dello schermo, alcune appaiono e scompaiono secondo necessità, creando un’interfaccia utente pulita e concisa che si adatta all’elegante direzione artistica. Sono presenti anche molte opzioni per coloro che desiderano saltare automaticamente i dialoghi, accelerare le conversazioni, disattivare la voce del protagonista e così via. Per essere chiari, non c’è nulla di clamorosamente innovativo sotto il sole: Emio non vuole reinventare il genere o stravolgere la ben consolidata tradizione cui appartiene, bensì catturarci con una storia ricca di colpi di scena, motivazioni recondite, false piste indiziarie e il mistero della leggenda dell’assassino che strangola le proprie vittime e le abbandona riverse con un sacchetto sulla testa, sopra il quale ha avuto l’accortezza di disegnare un rozzo e angosciante sorriso. Ancora una volta, sono l’efficacia e la potenza della scrittura a catturare l’interesse del suo pubblico di riferimento, con qualche sorpresa supplementare che non mancherà di cogliere alla sprovvista anche i veterani del franchise, dimostrazione pratica che Famicom Detective Club è pronto a fare il suo ingresso nell’età adulta, e noi insieme a lui.
Alla fin della fiera, la mia analisi potrebbe sembrare un’apologia delle visual novel piuttosto che una recensione del gioco in oggetto, ma il motivo risiede nell’enorme importanza posseduta dalla storia di questo tipo di avventure e dal loro contesto. Non stiamo parlando di un genere nuovo, le visual novel esistono da decenni, ma spesso finiscono per essere catalogate come titoli di nicchia dedicati a un pubblico specifico. Famicom Detective Club riesce invece a dimostrare che non c’è nulla di più sbagliato, malgrado una struttura che avrebbe potuto beneficiare di qualche ulteriore accorgimento moderno: Emio – L’uomo che sorride è un viaggio nel tempo che ci riporta al Giappone degli anni ’90, un periodo di grandi cambiamenti e contraddizioni, riuscendo a catturare perfettamente l’atmosfera di quell’epoca con le sue luci e le sue ombre. Le strade affollate, i negozi di quartiere e le case tradizionali creano un’ambientazione autentica e coinvolgente. Ma non è solo un semplice esercizio di nostalgia: l’ultimo sforzo di Sakamoto ha rinfocolato il mio amore nei confronti dei thriller enigmatici, ed è una concreta testimonianza di quanto il genere possa essere complesso nella sua relativa semplicità.