“Se il 2023 è stato l’anno dei licenziamenti, il 2024 sarà l’anno delle chiusure. Non solo di sviluppatori, ma anche di publisher, società editoriali e service provider. Prepariamoci ad altri due anni molto dolorosi”. Queste parole, pronunciate dal CEO di un’importante azienda di settore a GamesIndustry.biz, fotografano in modo molto diretto, lucido ese voletebrutale l’attuale stato dell’industria dei videogiochi, un colosso apparentemente indistruttibile, intoccabile, ritrovatosi improvvisamente dotato di piedi d’argilla, vacillante sotto i colpi di una crisi violenta e spietata, che ha strappato la maschera di invulnerabilità a un comparto già ricchissimo e immenso, reso ancor più grande ed ebbro di orgoglio dai dati record registrati tra il 2020 e il 2021, durante gli anni oscuri dell’isteria pandemica e dei lockdown forzati. Ecco, in parte è proprio qui che si può ravvisare l’origine della feroce crisi che da oltre un anno attanaglia la Games Industry. Una smodata richiesta di contenuti ha in breve sovra-saturato il mercato di prodotti, videogiochi che, in un mondo tornato in condizioni normali (se così si può dire, considerati i venti di guerra che soffiano un po’ ovunque…), non sono riusciti a garantire le performance auspicate. Il Mostro della Crisi è nato anche così. Ma sarà bene fare il punto della situazione: ben 8.500 posti di lavoro sono stati bruciati nel 2022, ma questo, purtroppo, era solo l’antipasto di un ben più amaro banchetto, che nel 2023 ha visto perdere il posto a una cifra che, a seconda delle fonti, oscilla tra i 10.500 e i 15.000 addetti al settore games. Quel che è peggio, il 2024 ha già mietuto oltre 8.000 vittime nei suoi primi 60 giorni. Il Mostro ha ancora fame, e gli analisti avvertono: il trend durerà per tutto il resto del 2024 e anche durante il 2025.
Non solo gli anni della COVID-fobia hanno malamente alterato gli equilibri della Games Industry, ma altri trend si sono rivelati drammaticamente pericolosi. Uno su tutti? Il costo di produzione dei videogiochi, andato decisamente fuori controllo. Prendiamo ad esempio la serie Spider-Man, pubblicata da Sony Interactive Entertainment. Il primo capitolo, del 2018, è costato 100 milioni di dollari, ma il suo sequel, Spider-Man: Miles Morales, del 2020, ha richiesto ben 156 milioni di dollari. Niente, tuttavia, se confrontato ai 315 milioni di dollari di budget di Spider-Man 2, sempre sviluppato da Insomniac per Sony, o peggio ai 385 milioni già previsti per il prossimo. Il fatto è che, in generale, il budget dei videogiochi AAA (i c.d. “Tripla A”, cioè le produzioni più imponenti, i colossal) è passato da 100-150 milioni di dollari in media fino al 2023 a oltre 200 milioni per i titoli programmati per l’uscita tra il 2024 e il 2025, con picchi ancor più impressionati per le opere monstre quali il nuovo Grand Theft Auto, dal budget di 550 milioni di dollari tra sviluppo e marketing, o il nuovo Call of Duty, in grado di richiedere ben 660 milioni, sempre combinando le due voci di spesa. Impressionante, specialmente perché non tutte le serie sono paragonabili a queste. Inutile poi stupirsi se i rischi presi per innovare le opere interattive, sviluppare serie originali o dare libero spazio ad autori e artisti sia sempre più risicato. Si lavora con una pistola puntata alla tempia, questa è la verità.
Non è un caso che continui un fenomeno di consolidamento dell’industria, con pesci sempre più grandi che ne fagocitano altri… altri che, talora, erano stati fino a poco prima protagonisti essi stessi di gigantesche acquisizioni. Chi mai avrebbe potuto immaginare che Activision Blizzard, lo spregiudicato gigante del gaming a stelle e strisce, sarebbe stato a sua volta divorato dall’onnipotente Microsoft per la cifra record di 68,7 miliardi di dollari tra il 2022 e il 2023? Mosse sempre molto pericolose, come ha dimostrato la vicenda di un altro big name della Games Industry, la scandinava Embracer, che, spinta da un investimento di un miliardo di dollari da parte di Savvy Games Group (azienda di proprietà di un fondo di investimento sovrano saudita) e dalla promessa di altri due miliardi, sempre dallo stesso fondo, ha letteralmente fatto shopping di aziende e brand di ogni genere in tutto il mondo, salvo poi dover correre ai ripari con una violenta ristrutturazione aziendale (leggi: con licenziamenti a pioggia e tagli) alla notizia del passo indietro di Savvy Games Group, che ha deciso di non investire l’ulteriore cifra preventivamente destinata a Embracer.
Durante la recente Game Developers Conference, a San Francisco, V ha incontrato due esperti e analisti del settore per scambiare quattro chiacchiere sul tema della crisi dell’industria dei videogiochi, riproponendosi allo stesso tempo di non abbandonare il filone, continuando a scavare le ragioni della crisi e le prospettive del settore.
Jason Della Rocca, classe 1974, canadese, co-fondatore dell’incubatore e acceleratore di studi di sviluppo di videogiochi Execution Labs a Montreal, è stato a lungo alla direzione di IGDA, International Game Developers Association. La sua grande esperienza lo ha portato a seguire, come analista e consulente, numerose realtà e progetti all’interno della Games Industry globale.
Iniziamo parlando di questo annus horribilis per l’industria dei videogiochi. Il 2023 è stato in effetti drammatico, considerato l’alto numero di licenziamenti nel settore. Che cosa ne pensi, soprattutto considerando il tuo background in IGDA, che rappresenta la comunità degli sviluppatori?
È stato un anno interessante. Lascia che mi spieghi meglio. In origine, credo che ci siano state alcune situazioni in cui diverse aziende hanno avuto seri problemi con diverse questioni. Certe compagnie stavano realmente avendo difficoltà finanziarie, e credo che molte altre aziende abbiano colto l’occasione per fare delle “scremature”. E anche se ancora guadagnavano bene, avevano la scusa: “Nessuno se la prenderà con noi, se ci liberiamo del 10% dei nostri impiegati peggiori!”. Non penso che tutti fossero pienamente legittimati a farlo: hanno visto che tutti stavano licenziando dei dipendenti, e così hanno pensato che fosse la loro occasione per sbarazzarsi di quelli che non funzionavano. Quindi, ritengo che ci fosse un po’ questo tipo di accumulo. Ora, naturalmente questa da parte mia è pura speculazione, sto solo tirando a indovinare, ma credo che alla fine ci siano stati davvero parecchi studi che hanno finito per chiudere perché non hanno potuto ottenere finanziamenti. Negli ultimi anni, ho trascorso molto più tempo con start-up e sviluppatori indie, e vedo la situazione attuale come un’opportunità per l’imprenditoria, per nuovi studi, per nuove startup. E quello che stiamo iniziando a vedere da tutta questa crisi sono nuove aziende, nuovi studi. Quindi penso che esistano nuove opportunità, c’è un lato positivo, anche se è sicuramente impegnativo da sviluppare.
Ma, secondo te, ci sono ragioni specifiche che hanno dato inizio a questi costi nello sviluppo dei videogiochi e che hanno portato a tutti questi licenziamenti?
Adesso stiamo parlando di tendenze macroeconomiche su larga scala; ad esempio, certe pressioni sulle economie globali dopo la pandemia, l’aumento dei tassi di interesse, il capitale che diventa più costoso. Quindi ci sono aziende come Embracer che si affidavano a mercati pubblici molto liquidi per avere più denaro e acquisire più studi, e ora all’improvviso il denaro diventa molto costoso. E tutti gli acquisti che fanno non si materializzano in più entrate. Quello che è interessante notare è che l’industria del videogioco, nel suo complesso, è ancora relativamente la stessa, come se valesse ancora 185 miliardi di dollari. Ma, tutto sommato, le dimensioni dell’industria non dovrebbero comportare tutti i tagli e le chiusure a cui stiamo assistendo. Quindi penso che la causa sia da ricercarsi soprattutto in questo spostamento macroeconomico intorno ai tassi di interesse, nell’aumento dei tassi di interesse e nelle scommesse sbagliate che sono state fatte quando il capitale era a buon mercato, e ora tutto ad un tratto quelle scommesse non stanno facendo ottenere i guadagni sperati, e quindi ci sono studi costretti a chiudere e tagli drastici del personale. E poi credo che ci siano stati anche studi che hanno approfittato della situazione generale per alleggerirsi e tagliare le risorse in eccesso.
Insomma, hanno sfruttato l’opportunità.
Esattamente. Ma alla fine va considerato che non sappiamo mai cosa avrà successo o no, nell’industria. I videogiochi sono una questione di puro entertainment e il mercato è trainato dalle hit. Quindi uno studio ci mette i soldi, fa una scommessa e se la maggior parte delle sue scommesse non funziona, finisce per trovarsi in guai seri.
Abbiamo letto che nei primi due mesi del 2024 ci saranno altri 8.000 licenziamenti. Secondo alcuni esperti e consulenti, la tendenza potrebbe continuare non solo per tutto quest’anno, ma anche per tutto il 2025, con una lieve risalita soltanto nel 2026. Pensi che sia una visione troppo pessimista, e che forse qualcosa potrebbe cambiare un po’?
Spero proprio che sia una visione troppo pessimista. Sarebbe molto, molto triste. C’è stata una tregua durante il periodo natalizio, in effetti, forse perché si è avuto un minimo di pietà per gli impiegati e le loro famiglie, ma poi, iniziato il nuovo anno, i tagli sono ripresi come prima. La mia ipotesi è che continueremo a vedere tagli nelle imprese che hanno scommesso male, come ho già detto. Quelle imprese sono costrette a tagli e ridimensionamenti. Ma penso che inizieremo a vedere anche nuovi successi. Per esempio, in mezzo a tutti questi licenziamenti e chiusure, è uscito Palworld, che ha guadagnato mezzo miliardo di dollari. Balatro, il gioco di carte di uno sviluppatore indie, nelle prime tre ore dall’uscita ha ottenuto 1 milione di dollari. Nonostante tagli e chiusure che senz’altro fanno male a vedersi, ci sono ancora tante storie di successo. Continuano ad accadere cose buone. Del resto, l’industria dei videogiochi nel corso degli anni è sempre stata un po’ volatile, e non tutti al suo interno fanno successo. Ci sono sempre vincitori e perdenti, quindi penso che, nonostante le perdite attuali, le storie di successo continueranno a emergere. Per questo motivo, non sono così pessimista. Insomma, siamo in un periodo in cui un giorno Microsoft annuncia 2000 licenziamenti, e poi il giorno dopo esce Palworld e guadagna mezzo miliardo di dollari. Credo che in qualche modo queste contraddizioni facciano parte della natura dell’industria.
Penso che sia anche il modello generale dei giochi tripla A che alza troppo l’asticella dei costi di produzione, a fronte di una situazione in cui, se non si è una delle aziende consolidate, si rischia molto di più di fallire. In fondo, è un po’ come lo sport; se insisti a pagare sempre di più i grandi campioni, lo standard di spesa si alza di conseguenza per tutti.
E se non vinci il campionato…
Esatto, allora hai fallito.
È un modo molto interessante di vederla, e in effetti funziona. A fronte di costi così elevati, il successo non è garantito e penso che questo tipo di giochi non sia neanche quello che ultimamente è stato più interessante per i giocatori. Titoli più social, come Among Us o Lethal Company, hanno venduto milioni di copie, e dietro ci sono assolutamente dei piccoli team. Quindi penso che le aziende tripla A dipendano ancora troppo da giochi in stile hollywoodiano, che richiedono enormi quantità di denaro per i contenuti scriptati: enormi produzioni 3D che alla fine offrono ancora storie piuttosto lineari. E questa tipologia di storie lineari non funziona più tanto bene, nell’industria dei videogiochi. Hanno molto più successo, ultimamente, i titoli che si possono rigiocare tante volte, titoli con mondi aperti, sandbox o meno, di natura sociale, multiplayer e simili. E questo non è necessariamente ciò che i grandi studi AAA stanno facendo. Hanno le loro IP, creano una grande produzione tripla A e non trovano semplicemente il mercato pronto ad accoglierla. Naturalmente, ci sono alcuni grandi titoli, come potrebbero esserlo The Last of Us o God of War, che ancora riescono ad avere un grande successo, ma io credo che siano destinati a essere sempre di meno.
La mia ultima domanda è sociale: pensi che in questi tempi ci siano categorie specifiche che soffrono di più la crisi? Ad esempio, le donne o specifici gruppi etnici. La domanda è collegata a un’altra. Pensi che questa crisi dimostri che abbiamo bisogno di più sindacati, nel campo dei giochi?
Beh, stiamo iniziando a vedere più sindacati e più organizzazioni sindacali, ma sono d’accordo al 100% che ci devono essere strutture più formalizzate. Il talento deve essere trattato meglio e pagato meglio. Non c’è dubbio che questo aspetto dell’industria debba migliorare, ma spesso, anche a fronte di organizzazioni sindacali presenti e milioni di dollari spesi, il gioco fallisce. Un sindacato non può aiutarti, se un gioco non vende. I sindacati possono di certo garantire che i lavoratori siano trattati bene e pagati equamente, ma comunque bisogna produrre giochi che vendano e abbiano successo sul mercato. Insomma, il problema delle vendite non può essere risolto dai sindacati.
Ma forse i sindacati possono impedire alle aziende di usare la crisi come un’opportunità per licenziare le persone.
Non sono un esperto di leggi sindacali, ma se Microsoft, che sta facendo miliardi di dollari, vuole licenziare dei lavoratori perché l’ultimo Halo non ha guadagnato abbastanza, forse i sindacati potranno fare qualcosa, ma se lo studio ha cento dipendenti, il gioco su cui puntava non ha funzionato e l’azienda non ha più denaro a sufficienza, l’alternativa è chiudere i battenti e licenziare tutti. E non c’è niente che il sindacato possa fare per impedire l’eventuale fallimento sul mercato di un gioco. Quindi sì, la situazione può essere diversa, se si tratta di una grande società come EA o Ubisoft, ma alla fine qualsiasi azienda, a prescindere dalle sue dimensioni, deve comunque guadagnare e avere giochi che funzionano. In termini di diversity, ammetto di non avere risposte certe. La mia ipotesi è che al momento la situazione non è ideale per le donne o qualsiasi gruppo etnico, perché è sempre stata più dura, per loro, e ora vi si aggiungono le chiusure, i licenziamenti, le difficoltà a trovare publisher e finanziatori. Perciò, per chi già aveva difficoltà, diventa ancora più dura. Sarebbe interessante avere uno studio più approfondito sull’argomento, comunque, per capire a che punto è il mercato sulla questione.
Jason Della Rocca è stato piuttosto chiaro, e le sue parole ci lasciano molti spunti sui quali riflettere. Noi di V abbiamo però voluto interpellare anche un altro esperto, più giovane di età ma di grande esperienza, l’ex giornalista specializzato Sterling McGarvey, attualmente Head of Consulting presso la società di analisi di mercato Hit Detection. Trattandosi di un professionista alla guida di un team specializzato nell’analizzare progetti di videogiochi stimandone costi e rischi per conto di developer e publisher, ci sembra il sogetto ideale col quale scamvbiare quattro chiacchiere di fronte a un caffè.
Parliamo della crisi che l’industria dei giochi sta affrontando. I numeri li conosciamo. Quindi, è uno scenario drammatico. Che cosa ne pensi? Cosa sta succedendo?
Ho parlato con amici che sono andati al D.I.C.E. Summit a Las Vegas a febbraio, e tutti continuavano a dire: “Bisogna sopravvivere fino al 2025”. Ma un mio amico molto noto nello sviluppo di giochi indie ha detto che non è sicuro se “sopravvivere fino al 2025” possa essere sufficiente per alcuni studi. Parte del problema è di certo l’economia, ma la crisi potrebbe anche essere in parte dovuta a dove stanno andando denaro e finanziamenti. Specialmente in Nord America, non sono più come in passato. E questo sta causando molti problemi. Ma penso che ciò che sta accadendo nel settore dei videogiochi stia accadendo anche nell’industria tecnologica, dove, anche se la gente parla di come l’IA sostituirà tanti lavori, io non ci credo pienamente. Di sicuro, l’IA porterà dei riscontri utili e positivi, ma non dubito che ci siano anche grossi interessi finanziari, dietro al discorso delle intelligenze artificiali, e non credo che sia vero quando ci dicono che andranno a sostituire chissà quanti posti di lavoro. L’IA resta uno strumento che qualcuno deve pur sempre gestire. Tuttavia, credo che nell’industria tecnologica molte aziende stiano licenziando le persone per poi riassumerle a salari più bassi, in modo da far guadagnare di più i propri azionisti. Probabilmente, una cosa simile sta succedendo anche nell’industria dei videogiochi, dove le aziende tendono a licenziare i dipendenti per assumere poi persone a prezzi più bassi e guadagnarci di più.
Quindi per alcune persone, questa crisi potrebbe essere la scusa perfetta per tagliare alcuni rami del settore, i più costosi che non vogliono mantenere, per ottenere di contro lavoratori a basso costo.
Sì, potrebbe essere così. Il problema, soprattutto negli Stati Uniti, è che molte persone vengono a lavorare dall’estero e hanno un visto collegato proprio al loro impiego. Anche l’assicurazione sanitaria è legata al lavoro e alla capacità di lavorare, e diventa un problema molto più di quanto non lo sia, per esempio, in Canada o in Europa. E quindi la situazione può diventare ancora più stressante, per le persone che lavorano negli USA.
Quindi se all’improvviso perdi il lavoro, resti senza assicurazione sanitaria, o potresti anche dover lasciare gli Stati Uniti, se sei uno straniero.
È possibile, sì. Alcune persone perdono il lavoro e anche il permesso di soggiorno. Ho assistito a molti casi di persone che vengono qui per lavorare dal Canada, e poi perdono il visto. Se perdi il lavoro, sei costretto a tornare in Canada, perché, se non riesci a trovare un nuovo lavoro, il visto scade. E allora sei costretto a trasferirti di nuovo.
Ma in fin dei conti, chi è responsabile della crisi? Essendo una congiuntura macroeconomica, si potrebbe dire che non c’è una responsabilità specifica. O forse sì? Ovviamente, non parlo delle piccole compagnie indipendenti, ma di alcune tipologie di aziende e dei loro investimenti…
Io credo che si tratti più un problema sistemico. Sono tanti elementi diversi che stanno causando la crisi. Per esempio, i fondi che provengono dai capitali di rischio, o simili tipologie di finanziamento, stanno iniziando ad allontanarsi dall’industria dei videogiochi, perché inseguivano alcune tendenze che non hanno funzionato e quindi hanno perso interesse nel settore. Pensa per esempio al metaverso: fino a due anni fa, non si faceva che parlare di quello, e poi…
Era soltanto una bolla.
Sì. Niente metaverso, oggi. Per i videogiochi, non significa quasi nulla.
Questo è successo anche con la VR.
Verissimo. Infatti, hai visto l’annuncio di Sony che sta bloccando anche la produzione di PSVR?
Sì, e non mi ha sorpreso.
No, non ha sorpreso neanche me. Ne avevo comprato uno al lancio, ed è ancora a prendere polvere nel mio ufficio.
Sfortunatamente, la VR nei videogiochi è stata solo un espediente, per anni.
Purtroppo è così. Certo, ha degli aspetti molto interessanti e certi team hanno creato esperienze spettacolari. Ma è una sfida difficile, perché i visori sono costosi e ultimamente il costo della vita è aumentato parecchio, soprattutto negli Stati Uniti. Le persone non possono permettersi di acquistare un visore VR da 500 dollari. Non hanno più la possibilità di prima della pandemia di acquistare hardware costoso o molti giochi da 70 dollari. Ed è qui che entrano in gioco i franchise e i titoli di successo. Diventa molto più semplice comprare un gioco che già si conosce e si apprezza, piuttosto che provarne uno completamente nuovo, spendendo 70 dollari senza sapere se ne varrà la pena.
E di certo non compreremo i nostri prodotti di lusso nel metaverso.
No, poco ma sicuro. Per il resto, credo che ci siano tanti altri problemi che stanno accadendo tutti allo stesso tempo. Problemi di finanziamenti, problemi legati agli studi più grandi che cercano di realizzare giochi sempre più spettacolari, il che, a livello di costi, rappresenta un rischio maggiore. Una parte del nostro lavoro come consulenti è proprio quella di aiutare gli studi di sviluppo a identificare i rischi, per poi trovare il modo giusto di considerarli e risolverli. Inoltre diamo consigli di marketing se il gioco non è ancora stato annunciato. In ogni caso, di recente c’è più pressione che mai per tentare di avere successo, perché spesso da quello dipende la vita di una compagnia. Ci basti considerare esempi come quello di Spider-Man 2, che è costato 300 milioni di dollari e ha a malapena pareggiato i conti. Il costo dei videogiochi è diventato ormai così esponenziale che devono riuscire ad avere successo, e quando non ci riescono, quando un gioco non va bene, lo studio finisce per dover licenziare i dipendenti o addirittura chiudere.
Beh, quando per raggiungere semplicemente il break even (punto di parteggio tra costi e ricavi), devi vendere milioni di copie, è chiaro che il modello diventa troppo rischioso.
È esattamente così.
Ti ricordi il caso di L.A. Noire? Il titolo vendette diversi milioni di copie, eppure non furono abbastanza e il Team Bondi saltò.
Sì, Rockstar spese tantissimo per mettere insieme quel gioco, perché la tecnologia utilizzata era innovativa e costosissima. Immagino quanto alta fosse la tensione al pensiero di non rientrare di quei costi così elevati. Piuttosto, nel prossimo futuro, credo che sarà molto interessante vedere che tipo di giochi si otterranno, man mano che i creativi tenderanno forse ad abbandonare le aziende e i giochi tripla A in favore di produzioni più piccole, con meno fondi. Cosa succederà allora? Che tipo di giochi avremo, con meno soldi a disposizione, ma tante menti e idee creative?
Vedi qualche somiglianza tra questa crisi e la vecchia crisi americana del 1983, quando crollò Atari? A quel tempo il mercato era sovraffollato, mentre i giochi erano crollati a livello di qualità. Forse questa volta è diverso, ma ti sembra di scorgere qualche eventuale somiglianza?
Spero proprio di non rivedere la crisi del 1983. I videogiochi, oggi, sono in condizioni molto migliori di quelli di allora. Penso soprattutto alla qualità, alla creatività, alle piattaforme… Non credo che siamo ai livelli della grande crisi dell’83, ma immagino che potrebbe essere un momento difficile, per l’industria, come lo è stato tra il 2008 e il 2010, quando c’è stata una forte recessione economica e publisher come Midway sono andati in perdita e sono stati costretti a smettere di pubblicare videogiochi. Molte aziende hanno chiuso in quegli anni. La crisi che stiamo affrontando al momento potrebbe rivelarsi anche più grande di quella, ma non mi sento di dire che raggiungeremo i livelli devastanti del 1983.
Vedendo tutti i licenziamenti avvenuti negli ultimi tempi, credi che il settore dei videogiochi abbia bisogno di più associazioni sindacali a protezione dei lavoratori?
Questa è una domanda interessante. Penso che, soprattutto negli Stati Uniti, la sindacalizzazione nell’ambito dei videogiochi sia sempre stata vista in modo piuttosto negativo. Credo che la cosa sia cominciata all’inizio degli anni ’80, quando i sindacati sono stati in gran parte sciolti, e quindi c’è un’intera generazione di persone, negli USA, che non ha idea dei benefici dei sindacati e ci sono persone che adesso stanno cercando di organizzarsi. Io le sostengo. Penso che le persone che lavorano in questo settore così volatile, così dipendente dal successo del prodotto, debbano essere in qualche modo protette, perché è il talento che crea questa grande arte che amiamo, e questo talento deve essere salvaguardato in qualche modo.
La mia ultima domanda riguarda le categorie specifiche di lavoratori, come ad esempio le donne, o alcuni gruppi etnici che hanno forse più problemi all’interno dell’ambiente di lavoro. Pensi che ci sia una relazione tra queste categorie più fragili e la crisi in atto? Potrebbe essere più grave per i lavoratori che fanno parte di queste categorie?
Purtroppo, a me sembra che in questo momento, soprattutto quando parliamo di grandi compagnie, e non solo nel mondo dei videogiochi, le prime associazioni e i primi gruppi che vengono sciolti sono proprio quelli speciali, perché le corporazioni sembrano voler dichiarare che implementare la diversità, l’equità e l’inclusione costa troppo, in questo momento difficile. E quindi, è la prima cosa che vanno a tagliare per abbassare i costi dell’azienda. E quando le persone che sostengono il lavoro delle donne o delle minoranze negli studi di sviluppo vengono mandate via insieme a tutte le altre, purtroppo il duro lavoro che si era fatto fino a quel momento per sviluppare inclusione e diversità anche nei giochi dovrà ricominciare da capo.