In questi mesi abbiamo esplorato ogni prima domenica del mese le serie tv più disparate, cambiando genere in maniera repentina e raccontandovi storie sempre diverse. Il mondo del piccolo schermo è vastissimo e va per questo studiato da più punti di vista, non tanto per avere un quadro generale (che è decisamente impossibile avere, considerando la massa incredibile di prodotti in fase di sviluppo o già rilasciati), ma per cercare di comprendere le scelte, lo stile e le caratteristiche alla base di alcune realizzazioni che si sono distinte dalle altre. Oggi faremo però un piccolo esperimento, cambiando totalmente tipologia di opera, andando a descrivere uno degli anime che hanno saputo maggiormente lasciare un segno indelebile all’interno del vasto mondo dell’animazione nipponica: stiamo parlando di Cowboy Bebop, serie di fantascienza di 26 episodi, andata in onda tra il 1998 e il 1999, che arriverà, in versione live-action, su Netflix. Scopriamo insieme perché a distanza di anni è nato un vero e proprio mito dietro la creatura di Dai Satō e Shin’ichirō Watanabe, rispettivamente lo sceneggiatore e il regista, che hanno lavorato efficacemente insieme per costruire non solo una trama affascinante, ma anche un background solido che la supporta.
Nel 2071 l’intera umanità vive in tutti i pianeti del sistema solare, dopo che un incidente planetario ha sterminato parte della popolazione della Terra e ha costretto i suoi abitanti a spostarsi altrove. In un mondo iper-tecnologico, ma vessato da una criminalità organizzata estremamente potente e capillare, la polizia ha le mani legate e, come nel vecchio West, i tutori della legge tornano ad essere i cacciatori di taglie, che vagano nello spazio alla ricerca di delinquenti da catturare. La prima puntata, che funge da introduzione a tutte le vicende, ci presenta i due protagonisti, Spike Spiegel (l’indolente e svogliato eroe principale) e Jet Black (la sua possente e imbronciata spalla), due di questi predatori di criminali, che hanno una loro vittima da inseguire e stanare con la loro nave. L’intero episodio, oltre a fornirci un incipit in medias res davvero efficace (infatti l’intero universo e mitologia della serie si scoprono piano piano e la prima cosa che vedremo saranno i due eroi in azione), ci mostra la struttura ricorrente di narrazione che vedremo nel corso della realizzazione. Di fatto, la ricerca del criminale di turno, la caccia vera e propria ed infine la vittoria o sconfitta della squadra. La coppia fin da subito risulta esplosiva e ben bilanciata ma è ancora orfana di altre curiose aggiunte che rendono ancora più stimolante il team.
Mano a mano che la trama prosegue, si aggiungeranno al gruppo anche Faye Valentine, la femme fatale, il cane Ein e Ed, una giovane e geniale hacker. Quando, per la prima volta, vediamo tutta la compagnia al completo, ci rendiamo conto del primo grande punto di forza di Cowboy Bebop: i personaggi. Ognuno di loro racconta la propria storia al pubblico, aprendosi al dialogo ed evolvendosi in maniera progressiva, fino ad arrivare allo sconcertante ed esplosivo doppio-episodio conclusivo. Sarebbe un crimine atroce svelarvi tutti i principali retroscena dietro l’equipaggio del Bebop (anche perché le rivelazioni che appartengono agli eroi sono talmente dilatate nel corso degli episodi, che alcuni segreti li scopriremo solamente nelle battute finali), ma una cosa posso sicuramente dirvela: ciò che li accomuna è il loro travagliato e (in alcuni casi) oscuro passato, dal quale fuggono e che li tormenta costantemente.
Le nostre origini non ci rendono per forza orgogliosi, perché ci fanno anche del male e ci bruciano dentro: in questo, l’avventura di tutta la ciurma, è da vedere non solo come un viaggio fisico fatto di combattimenti, litigi, addii, ma anche come una riscoperta dei propri natali, e una pacifica e al contempo brusca accettazione di noi stessi. Se, infatti, nel corso della narrazione avremo episodi autoconclusivi e verticali, in altri si dipanerà una trama orizzontale che mano a mano seguirà in prima persona il carattere, la psicologia e l’evoluzione dei nostri protagonisti. Anche se all’unanimità Spike viene considerato l’eroe assoluto (e difatti i vari scontri che ha con il villain principale Vicious sono tra i momenti più intensi della realizzazione), anche gli altri avranno i propri attimi di gloria, commuoventi e delicati, rimarcando un talento incredibile di scrittura alle spalle. Fino ad ora ci siamo soffermati solo su elementi legati ai personaggi e alle tematiche presenti nella serie, ma è opportuno parlare anche degli elementi estetici del prodotto.
Passiamo quindi dal particolare al generale, evidenziando principalmente, tra le varie componenti, due nel dettaglio: la musica e la tutta la direzione registica. La colonna sonora (curata da Yōko Kanno) è sicuramente una delle perni fondamentali dell’intero anime e tra i punti maggiormente riconoscibili e ricordati nel corso del tempo: contrariamente alla canonicità, sia i brani strumentali che quelli cantati nascono da una incredibile mescolanza di generi, tra i quali sono preponderanti il jazz, il folk e il country, regalando agli spettatori delle tracce indelebili ed iconiche, ancora nella mente degli appassionati. L’aspetto che conferma questo vero e proprio inno alla musica, è che ogni traccia risulta efficace anche tolta dal contesto, ma dimostra maggiormente la sua potenza quando è inserita in un determinata situazione, combattimento, o scena, drammatica o comica che sia.
La regia, invece, come insegna la mano del buon Quentin Tarantino che ne ha fatto una vera e propria bandiera, è molto citazionista, anche se ha un proprio stile personale e originale, figlio di una commistione culturale gigantesca, dove i film western, la fantascienza più classica e l’animazione giapponese convivono armonicamente, senza mai avere una delle componenti che prevalica le altre. Proprio per questo motivo, l’opera non rientra in un vero e proprio genere di riferimento, caratteristica che sicuramente ha contribuito a renderla così tanto importante nel mondo dell’intrattenimento. Come nelle migliori tradizioni oratorie, il materiale raccontato, a sua volta ispirato a realizzazioni diversissime per genere e stile, si è fatto portavoce degli anime moderni, rimanendo uno dei picchi più alti raggiunti dalle serie nipponiche.
Cowboy Bebop è uno di quei prodotti che va visto almeno una volta nella vita: un tripudio visivo, sonoro e narrativo, dove tutte le varie parti che lo compongono sono perfettamente incastrate e che lavorano sinergicamente per costruire una storia che si concentra quasi interamente nel narrare le tragiche e sfortunate vite dei protagonisti, ma che è perfettamente inserita in universo realistico e funzionante in ogni suo elemento. Il background generale è infatti necessario per sviluppare e sviscerare tutti i segreti che celano i vari personaggi, che scopriremo sapientemente pezzo per pezzo, in maniera tale da empatizzare passo dopo passo con loro e vivere, piangere e ridere delle loro tristi, rocambolesche e, alcune volte surreali, avventure in giro per lo spazio profondo.