RAD Recensione, come amare le nostre braccia mutate

È un brutto periodo. L’estate è sempre un brutto periodo. E non solo perché siamo tutti costretti ad ascoltare interrottamente “Señorita” mentre simpatici figuri ci invitano a mortali sessioni di Acquagym. Anche per quello. Ma per noi videogiocatori in particolare l’estate rappresenta un lento affogare nelle sabbie mobili, il Nulla, l’industria che si ferma: scarichiamo emulatori, spolveriamo vecchie console, ci ritroviamo a giocare con il timer del microonde. Poi, però, succede: esce un roguelike. Nuovo, sadico, vecchia scuola. E allora diventa subito un bel periodo: andiamo a provare RAD.

Double Fine la conosciamo, gli vogliamo bene: la Software House di Tim Schafer riesce sempre a creare titoli fuori di testa, spesso dal sapore agrodolce, con skin cartoon a nascondere cuori di tenebra. RAD è proprio questo: un roguelike pazzo, che scorre liscio nonostante un’anima cruda. Ma partiamo dall’inizio: il mondo, per come lo conosciamo, è finito. Prima vennero gli Antichi, la nostra civiltà, e devastarono il pianeta. Poi vennero i Guaritori, decisi a mettere a un po’ di ordine in quelle lande desolate, ma anche qui, non finì bene. E ora siamo qui e la speranza non gode di buona salute: tutti sanno che il domani non esiste e ben che vada finiremo sbranati da un orso mutato. Tanto vale divertirsi un po’. Lo scenario che Double Fine riesce a mettere su è unico come sempre: la gente ha smesso di sperare, la morte è all’ordine nel giorno in questa enorme farsa tragicomica. Televisori a tubo catodico e cabinati di Pac-Man sono i soli interessi delle persone in giro per la cittadina post-atomica dove inizia la nostra avventura: unico problema di questa simpatica gentaglia… la mancanza di energia. Non il cibo, non l’acqua, ma la mancanza di elettricità per continuare a sfidare gli amici su Street Fighter. Poesia.

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Tre mondi esplorabili, unità di terreno collegate tra di loro da una matrice randomica e nemici endemici per ogni setting. Tutto perfetto così?

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C’è poco da fare allora: QUALCUNO dovrà uscire lì fuori, nelle terre selvagge, a risolvere la faccenda. Almeno così hanno stabilito gli Anziani: che vadano i giovani allora, pieni di forza, di energia, con un’intera vita davanti. Un’intera vita davanti cortissima. Ma non faremo troppe proteste e armati di mazza da baseball, uno dopo l’altro, impersonificheremo proprio questi ragazzi, lanciati all’avventura contro mostri atomici. E se all’inizio ci mancherà  magari un po’ di potenza di fuoco, nessun problema: basterà mutare un po’. RAD si basa proprio su di loro, le esomutazioni e le endomutazioni. Mentre le prime saranno le più appariscenti, regalandoci corpi da ragno o braccia allungabili, le seconde ci garantiranno bonus – o malus – passivi, e attenzione: se pensavate di poter gestire la cosa, vi sbagliavate di grosso. Nonostante l’HUB centrale ci metta a disposizione metodi per cancellare o sostituire mutazioni con altre (comunque casuali), il fattore RNG in RAD fa da padrone, con tanto di gestione procedurale delle mappe di gioco. Tre mondi esplorabili, unità di terreno collegate tra di loro da una matrice randomica e nemici endemici per ogni setting. Tutto perfetto così?

Si, le persone vi odiano. Avete ancora intenzione di salvarle?

Non proprio. Per tanti motivi: perché tre mondi sono pochi per un genere che punta in gran parte alla rigiocabilità; perché il Creature Design spesso si basa su reskin, recolor o mutamenti degli effetti elementali dei mostriciattoli; perché la matrice della mappatura è leggibile abbastanza chiaramente sul lungo termine. E se aggiungiamo a questo una gestione della camera non proprio eccellente e bug un po’ ovunque, questo bellissimo mondo post-post-atomico comincia a scricchiolare. Eppure, basta poco per innamorarsi. Provate per esempio a mutare, anche solo un paio di volte, e poi tornate nell’HUB centrale, la cittadina dove tutto è iniziato. Alla vista del vostro terzo braccio la gente comincerà dapprima a puntarvi il dito sorniona, in seguito passerà direttamente a offendervi. A offendere voi, l’eroe. Voi che avete cominciato a mutare proprio per salvarli, rinunciando poco a poco a pezzi sempre più grandi della vostra umanità. E lo avete fatto per diventare abbastanza forti da difendere i vostri simili: robe che Deus Ex spostati. Questo, come il tema iniziale di una generazione che condanna la successiva, vera chiave di lettura dei nostri tempi, è solo un’altra riprova di come Double Fine riesca a inserire trame mature quanto crudeli in giochi all’apparenza innocui, lasciandole scivolare dalla tasca come per errore.

Quindi, che dire. Ci troviamo di fronte a un titolo valido, solido, con un comparto artistico curato al dettaglio, un gameplay studiato, colonne sonore azzeccatissime e lore davvero particolare. Eppure la perfezione non è qui: per quanto opinabili, i limiti di RAD sono concreti, tanto nella longevità quanto nello sviluppo della matrice procedurale. Il titolo Double Fine non è il roguelike definitivo, la ricerca continua. Ma, nell’attesa, fidatevi: perdere la propria umanità non è mai stato così divertente.

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