Il metodo per realizzare un videogioco che coinvolga gli zombi è fondamentalmente semplice: basta piazzarli in massa all’interno di un contesto più o meno urbano, abbinandovi al contempo dei superstiti caparbi e un forte retrogusto gore. Detta così può sembrare limitante, eppure questa ricetta ha molte varianti, che hanno permesso ad un genere come il survival-horror di riprodursi nelle maniere e nei modi più disparati, tanto nel serio quanto nel faceto. Zombeer appartiene a questa seconda categoria, e si configura come uno shooter in prima persona con blandi elementi survival.
La premessa è tanto assurda quanto efficace: impersoniamo un universitario conosciuto solamente come “K” che si risveglia in un bar il giorno dopo Halloween, e che dovrà salvare la propria ragazza dal perfido rettore Colon Duty. Impresa tutt’altro che facile, visto che un’epidemia di zombi è appena scoppiata in città e lui è stato morso. Con queste premesse non ci vuole molto a capire il piglio esagerato e parodistico che permea in tutto questo indie spagnolo. Il viaggio di K all’interno del campus universitario sarà infatti costellato di riferimenti e citazioni, che spaziano dal mondo video ludico a quello cinematografico per arrivare ai fenomeni di internet, al vintage e agli ammiccamenti sexy.
Questo amalgama di citazioni più o meno esplicite rappresenta forse il punto migliore della produzione, in quanto gli sviluppatori sono riusciti ad armonizzarle tutte e a non renderle mai invasive. Il gameplay, invece, non è malvagio ma non è neppure indimenticabile: ci si muove con una visuale in prima persona alla ricerca di oggetti per proseguire eliminando nel frattempo gli zombie che ci vengono incontro, sfruttando armi assurde ed improvvisate. Lo stesso elemento survival è delineato in maniera ugualmente ironica: le munizioni non scarseggiano, ma il protagonista è pur sempre infetto e per evitare una brutta fine dovremo recuperare e fargli scolare bottiglie di Zombeer, la birra di punta dell’omonima multinazionale. Gli sviluppatori non sono stati avari nella sua collocazione, ma ci costringono anche a berla con una certa frequenza. Non dovremo però mai esagerare, in quanto se ne buttiamo giù troppa ci avvelenerà, costringendoci a ricominciare dall’ultimo checkpoint. In nostro aiuto verrà una barra nella parte bassa dell’interfaccia, che ci indicherà se stiamo rischiando la zombificazione (sinistra) o lo shock etilico (destra). Completano il piatto qualche quick time event, alcuni semplici enigmi ambientali e i collezionabili, divisi in pupazzetti e registratori con inciso il dietro le quinte del gioco.
Graficamente parlando, spiace dirlo ma questo Zombeer è appena passabile: nonostante le ambientazioni siano quasi tutte al chiuso, sono spesso disseminate di texture in bassa risoluzione, mentre i personaggi umani presentano una modellazione poligonale anche troppo semplificata, con tra l’altro molto riciclo dei modelli. Stesso discorso per le animazioni, che appaiono nei loro movimenti come troppo “gommosi”. Il tutto non si muove nemmeno fluidamente, con scatti e cali di frame-rate che ci accompagnano per tutta l’avventura. Un po’ meglio il design, grazie all’impegno degli sviluppatori di rappresentare una città folle dove la Zombeer è dappertutto, dai corridoi alle biblioteche, dai libri ai distributori automatici, all’interno di una società che niente fa per arginare la dipendenza ma anzi ci si crogiola. Interessante il comparto sonoro: a musiche martellanti si alternano effetti sonori fatti di rumori, passi, gemiti che nelle occasioni giuste tengono sul chi va là. Consigliare Zombeer a prescindere non è possibile. Da una parte si fa apprezzare per lo stile parodistico ed assurdo, sboccato tanto nel doppiaggio inglese quanto nei sottotitoli in italiano, dall’altra un comparto tecnico singhiozzante e un gameplay che da chiassoso diventa confusionario troppo facilmente obbliga a scendere a degli inevitabili compromessi. Il consiglio di acquisto va quindi soprattutto a coloro che vogliono collezionare tutto quello che riguarda i morti barcollanti.
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