Recensione The Last Guardian

Dire (e sostenere) le cose giuste su The Last Guardian mi è risultato piuttosto complesso. In primis, per il macigno che si porta appresso da quasi dieci anni, come il suo amico Final Fantasy XV. E poi perché, a fronte di un gioco, lo dico subito, che mi è entrato nel cuore, esiste una controparte tecnica tutt’altro che eccelsa (provato su PlayStation 4 standard) che per forza di cose deve essere menzionata. Dopo annunci, scomparse e rinvii, il terzo titolo di Fumito Ueda (qui con il team di sviluppo GenDESIGN) ha visto finalmente la luce il 6 dicembre. Proverò a non abusare del termine “poetico”, che vuol dire tutto e non vuol dire niente, anche perché più che nella poesia, The Last Guardian trova i suoi punti di forza in una caratteristica molto reale: il profondissimo legame che si instaura tra un padrone e il suo animale domestico. Perchè una cosa è impossibile negarla: solo chi, come Ueda, ha trascorso parte della sua vita circondato da animali, può descriverne così minuziosamente le dinamiche e le interazioni.

Raccontare la storia di The Last Guardian vuol dire, in parte, rovinare la sorpresa di chi lo giocherà. Tutto, più o meno, quello che c’è da sapere vi verrà comunque fatto conoscere nel corso dell’avventura, non temete. L’opera di Ueda inizia però con il giocatore all’oscuro di ciò che c’è dietro; sono pochi gli indizi che vi collegheranno al mondo di gioco. Vi basterà sapere che inizierete la vostra esperienza all’interno di una grotta, con il protagonista che si chiede per quale motivo abbia degli strani disegni su tutto il corpo, e che accanto a voi si trova, ferita, una bestia mangia-uomini, Trico. L’animale simbolo di The Last Guardian è un ibrido che Ueda descrive come l’incrocio fra un cane, un gatto e un uccello. La mia personale impressione, forse perché ho un gatto che gira per casa, è che le caratteristiche dominanti siano quelle del felino. Per tutta l’avventura verrete guidati dalla voce narrante del vostro protagonista senza nome ormai adulto.

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Alcuni enigmi vi faranno lavorare tanto con il cervello quanto con la vista.

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The Last Guardian è sostanzialmente un grande puzzle game, ambientato in una fortezza all’interno di un enorme conca di pietra. Controllerete il piccolo bambino protagonista e farete affidamento sulla bestia Trico per risolvere i diversi enigmi, impartendogli dei comandi, che analizzeremo successivamente. Ci sono però più riferimenti gameplayistici di un Uncharted rispetto che ad un The Witness; questo perché l’involucro esterno da puzzle game ha un cuore pulsante da platform/action. Affronterete l’opera in un mondo con un level design ispiratissimo che va dagli stretti e nascosti cunicoli fino agli spettacolari sviluppi verso l’alto, con scalate di torri e camminate su corde sospese nel vuoto, che mi hanno fatto pensare ai filmati di parkour estremo che guardo su YouTube (si, avrei voluto far fare un selfie al protagonista sulla cima di una delle altissime torri presenti nel gioco). E per chi, come me, soffre di vertigini, la sensazione ricevuta è stata molto forte. Alcuni enigmi vi faranno lavorare tanto con il cervello quanto con la vista, perché uno dei punti positivi del gioco è il mondo stesso. La “poesia” di The Last Guardian si trova nella struttura stessa del titolo: la si può scoprire capendo su quale pilastro bisogna saltare, così come la si può scorgere in una strada che non porta da nessuna parte, ma che vi farà ammirare, anche solo per pochi secondi, un panorama incredibile.

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Quegli specchi colorati e Trico sembrano non andare molto d’accordo.

Il primo impatto che si ha con il titolo, pad alla mano, dà un certo senso di smarrimento. Oltre alle indicazioni che vi spiegano come si compiono le azioni, e i tasti che sono collegati alle stesse, non ci saranno suggerimenti di sorta su cosa fare. O meglio, la voce narrante, in caso di difficoltà, dispenserà consigli, ma non aspettatevi segnalazioni su mappe che vi dicano dove andare e cosa fare. Le meccaniche di base sono quelle dei puzzle game, e come tali devono richiedere ingegno. E’ anche giusto avere pochi riferimenti in questo senso e cercare di scoprire con i propri occhi tutte le sorprese che un mondo dal level design così ispirato può offrirvi. Allo stesso tempo però, i controlli non appariranno essere totalmente immediati (anche il solo saltare con il triangolo). Soprattutto mentre starete in groppa a Trico, vi risulterà complesso fare il giusto movimento, e non nego che ci sono stati alcuni momenti un po’ frustranti in cui non riuscivo a scendere dalla bestia nel posto in cui volevo, facendo volare il povero bambino negli abissi svariate volte.

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Sotto il profilo ludico diverte, soddisfa e […] ha un gameplay molto vario.

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La telecamera di gioco poteva sicuramente essere gestita meglio. Soprattutto con l’enorme Trico nei posti più stretti, l’inquadratura potrebbe mandarvi in tilt. Questo perché i muri sposteranno repentinamente la visuale, che tende spesso a puntare la bestia anche quando vorreste vedere da un altra parte. Superato il “trauma” iniziale, però (aumentando la sensibilità della camera ho notato dei miglioramenti), l’occhio e il cervello si abitueranno a certi movimenti e tutto risulterà più semplice. Ed è un vero peccato dover scrivere di problemi di natura tecnica in un titolo che, nonostante abbia un concept vecchio di 10 anni e sebbene sia sostanzialmente l’unione delle prime due opere di Ueda (ICO e Shadow of The Colossus), è comunque un gioco che, anche sotto il profilo ludico, diverte e soddisfa con un gameplay molto vario, dove la sensazione di ripetitività non vi abbraccerà mai nelle 8, 15 o più ore di gioco che impiegherete per finirlo.

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Tanti enigmi, tante leve da tirare.

Ma il punto di forza, che sovrasta tutto e tutti, è il legame che durante l’avventura si andrà ad instaurare tra il protagonista (quindi voi) e Trico. Un legame difficilmente riscontrabile in altre opere. Un rapporto che crescerà man mano che andrete avanti con l’avventura. Il primo incontro non sarà infatti dei più amichevoli, ma gli eventi che si susseguono nella storia faranno sviluppare, a poco a poco, una forte fiducia reciproca tra i due personaggi. Inizialmente potrete solo richiamare la bestia e, letteralmente, scalarla. Successivamente potrete anche dirgli in che direzione andare, se colpire o saltare: non sempre però Trico vi darà ragione, come, del resto, non sempre un animale segue in tutto e per tutto il suo padrone. La bellezza vera di The Last Guardian si trova però nei piccoli particolari. Vedere come la bestia punta i barili di cibo che gli offrirete, scoprire lo studio che c’è dietro ogni suo movimento, e aspettarsi che chieda di essere accarezzato dopo che gli avete dato da mangiare o dopo che lo avete salvato dai pericoli. Questa è la vittoria del gioco.

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Se una bestia del genere esistesse veramente, direste che è riprodotta in modo perfetto.

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Più che nella storia in se, che comunque trova dei momenti emozionali alti, troverete quindi il lato più ispirato proprio nelle sezioni di gameplay, con i richiami, i rimproveri che farete a Trico quando eseguirà (o non eseguirà) un comando sbagliato, e con il vostro voler far di tutto per aiutarlo nelle situazioni di pericolo. Rimarrete impressionati dall’intelligenza della bestia e dalle tante reazioni che avrà nelle diverse situazioni, così come vedrete che riuscitissime e ricercate sono le sue animazioni. Se una bestia del genere esistesse veramente, direste che è riprodotta in modo perfetto. Estremamente curate e varie anche le animazioni del bambino protagonista, dalla sua corsetta nei momenti di pericolo, al tuffo con capriola utile per sfuggire ai temibili nemici in armatura. Scelta azzeccata poi anche quella di utilizzare un particolare idioma (il quale non esiste), che richiama ad un mondo selvaggio e che trova la sua forza nel tono e nell’intensità della voce del bambino.

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La sintesi di The Last Guardian in un’immagine.

Graficamente non si grida certo al miracolo. Il gioco risente della sua nascita durante la scorsa generazione, e specie in alcune scene filmate qualcosa vi farà rimanere un po’straniti. Molte texture viste da vicino sono in bassa risoluzione e, problema più grave, il gioco soffre, ahinoi, di cali vertiginosi di frame rate negli spazi aperti quando ci sono tanti oggetti a vista. Indubbiamente però la studio artistico dietro al progetto è di altissimo livello. Un vero peccato non aver ottimizzato il tutto, risottolineando il concetto avuto precedentemente per la questione telecamera. Le musiche si sposano perfettamente al mondo di gioco. Il lavoro del compositore Takeshi Furukawa, dirigendo la London Simphony Orchestra, il Trinity Boys Choir e le London Voices, risulta impeccabile, dando risalto ai cori, agli archi e al piano (suonato dallo stesso Furukawa). Personalmente, trovo nell’overture la migliore espressione.

Ueda riprende le caratteristiche principali dei suoi primi due titoli (ICO e Shadow of the Colossus), mischia gli elementi migliori e li amplifica, in un prodotto che parte da un concept di dieci anni fa, ma che risulta comunque divertente, gradevole e appagante anche nel 2016. Soffre purtroppo di diversi problemi di natura tecnica che potrebbero compromettere l’esperienza globale, ma che, escludendoli, fanno scorgere l’anima di un gioco che rimane impresso nella mente e nel cuore. Un’opera che consiglio assolutamente a chi ha avuto e amato un animale domestico e a chi vuole vivere un’avventura genuina. Poche volte mi sono portato un gioco nel mondo esterno: con Heavy Rain volevo aprire il frigorifero tramite quick time event, con The Last Guardian ho rivisto Trico negli occhi del mio gatto.

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