Dead Space 3: la Recensione di VMAG


Per chi ama il fanta-horror, Dead Space è come un invito gratuito per una notte bollente a tre con Angelina Jolie e Sigourney Weaver. Insomma, dire di no risulta alquanto complicato. Di sicuro, poco educato. E poi qui ci sono proprio tutte: more (l’atmosfera), bionde (il sonoro) e rosse (l’ambientazione). Quando si dice non farsi mancare proprio nulla, insomma. Claustrofobici tunnel dalle mura metallizzate: check. Audio orchestrale e sottile come un fil di filigrana, che ti attraversa da un timpano all’altro: check. Istanti da “elettrocardiogramma che alza il pollice in su” e sedere che si stacca dalla sedia come in una sala a gravità zero: check. Insomma, chi come il sottoscritto non potrebbe mai stancarsi di rivivere i capitoli della saga di Alien, non può che essersi infatuato dell’epopea firmata Visceral Game fin dal suo debutto.

Con un secondo capitolo più votato all’azione e meno all’esplorazione, che abbandonava il backtracking genetico dei survival horror per lanciarsi in una corsa hollywoodiana dove “nessuno può sentirti urlare”, sono nati i primi timori e qualcuno ha cominciato a strapparsi i capelli (e non nel senso buono). Ma nonostante il feeling spudoratamente action anche la seconda disavventura del buon Isaac Clarke sfoggiava momenti di puro terrore, oliando per bene gli ingranaggi della paura quando serviva: come in un castello di sabbia, alcune cose crollavano, altre prendevano una forma propria e sorprendentemente ammaliante, modellate da un vento nuovo e mai privo di carattere. Il tentativo di allargare l’utenza grazie a una maggior enfasi sui combattimenti e un’atmosfera meno angosciante e destabilizzante per i sogni dei più sensibili era comunque palese, sebbene l’amore per perle cinematografiche come Aliens e Punto di non ritorno trasudava comunque da ogni “fottuta parete”.

Che arrivasse il turno di lasciare spazio alle contaminazioni dell’inossidabile remake del 1982 “La Cosa”, firmata da un ispiratissimo John Carpenter, era quindi solo questione di tempo. Magari qualcuno tra voi intento a leggere queste righe a questo punto potrebbe anche obiettare “ma Lost Planet dove lo mettiamo?”. E a ragione. Ma sarò sincero: ritroverete molto più John W.Campbell che Akrid in Dead Space 3. Per fortuna. Sfortunatamente, però, le battute iniziali del lavoro dei ragazzi di Visceral Games sono distanti dal primo capitolo della Trilogia dell’Apocalisse quanto Plutone dalla nostra madreterra… in termini di anni luce, eh. E già, perché il brusco risveglio non sarà solo quello di un trasandato e alcolizzato Isaac (Max anymore?). Per chi ha vissuto l’ansia di ritrovarsi tra le mani un gioco assolutamente non in linea con quanto consacrato dai suoi illustri predecessori, è la materializzazione di un incubo partorito dalla viscere dell’inferno: ci ritroveremo infatti circondati da soldati ed elicotteri in un’enorme metropoli dalle tinte cyberpunk, in corsa come un giovane Harrison Ford ne “Il Fuggitivo”, imprecando per il nonsense del tutto e acquietandoci unicamente quando verremo sedotti da un motore grafico imponente e granitico come pochi in questa generazione.

La sensazione è quella di giocare Uncharted con i controlli di Dead Space… e non è affatto piacevole. Perché non funziona per nulla, tanto per dirne una. Ma mantenete pure saldi i vostri capelli sulla testa: tale sezione non durerà più dell’estrazione di un dente cariato e, finita l’anestesia, potrete tornare a masticare necromorfi. Una volta fuggiti dalle grinfie di una Unitology più accanita di un esercito di Helghast, infatti, ci lanceremo nello spazio profondo dando il via a un Dead Space all’ennesima potenza, che tenta l’inversione a “U” verso le atmosfere stridule, taglienti e metalliche dell’Ishimura. L’impatto è gradevole quanto il ghiaccio sul collo sotto il sole cocente dell’Africa in pieno agosto e il sospiro di sollievo è garantito come il canone Rai. Le luci verdastre proiettate direttamente dal casco della tuta di Isaac illumineranno rugginosi e umidi ambienti fatiscenti, dove il nostro respiro danza il valzer con i cupi e gravi rimbombi che riecheggiano in lungo e in largo per i claustrofobici corridoi di una flotta spaziale in orbita attorno a Tau Volantis. Sì, il pianeta che fa tanto “La Cosa” (o Lost Planet, se proprio preferite) che voi tutti avrete ammirato fin dai trailer dello scorso E3. Il cuore si ferma e un sorriso non potrà che dipingervi il volto come una novella Gioconda: la vera paura, quella di un epic fail (diciamocelo, su) è archiviata… e quello che magari era ancora più difficile di preventivare è proprio quanto Dead Space 3 sia in grado di sorprenderci e appagarci, regalandoci soddisfazioni ben al di sopra delle aspettative.

Il nucleo centrale dello script (sul quale eviteremo spietatissimi spoiler) non è certo opera di Lovercraft, eppure lo sviluppo della storia e delle relazioni tra i personaggi rivela più di un interessante spunto surclassando, sotto certi aspetti, anche i buoni risultati del capostipite stesso. L’azione è ben bilanciata ma sempre somministrata in dosi massicce (anche se il secondo episodio rimane quello più frenetico della trilogia), mentre l’aggiunta coraggiosa di un sistema di crafting per creare armi collezionando oggetti per la strada, modificandone ogni parte e potenziando le loro capacità, si rivela da subito vincente e piuttosto semplice da assimilare. Il temutissimo (e a ragione) sistema di copertura non avrà ragione d’esistere se non nelle sequenze con nemici umani, per fortuna sporadiche e limitate. La presenza di più di un vascello fantasma alla deriva nell’universo di Dead Space, inoltre, si sposa come acqua per il cioccolato con l’innovativa presenza di vere e proprie missioni secondarie, da finire tutte d’un fiato e con le quali avremo accesso a oggetti e armi altrimenti preclusi (che non fanno mai male). E niente pomodori verdi e fritti alla fermata del treno, per Isaac (purtroppo).

Le “soste” saranno infatti quasi del tutto assenti, come già accadeva in Dead Space 2, sebbene potremo tirare il fiato (è proprio il caso di dirlo) durante le sezioni a gravità zero o mentre pilotiamo navette d’emergenza tra un campo di mine esplosive e l’altro. Ma la presenza di un backtracking più corposo che nel diretto predecessore riesce comunque a donare la giusta enfasi alla densa atmosfera che si espande come nebbia di prima mattina per tutta la durata del gioco. Perché sì, diciamocelo, rimanere circoscritti in un’area da sbloccare pian piano e nella quale ci si sente prigionieri e in catene, era parte integrante dell’ossatura del gameplay stesso delle avventure survival horror, come Alone in the Dark o il più recente Resident Evil (1996)… struttura attentamente riprodotta da Visceral Games con l’Ishimura stessa, a ben pensarci. Inoltre, la piccola squadra che tenta di sopravvivere tra screzi personali, gelosie mal sepolte e una dannata, schifosa bestia bavosa che gli dà la caccia, è un motore che ha finito il suo rodaggio già nel ’79 con Ridley Scott e che qui spinge i suoi “giri al minuto” come non accadeva dai tempi di Extraction (probabilmente il migliore della saga per quanto riguarda lo script).

Peccato che il ruolo di John Carver, il marine terrestre che ha debuttato fin dal primo titolo, rimanga tristemente legato a doppio filo alla modalità cooperativa: un’opzione che per i puristi del caso è come orrore e raccapriccio insieme con contorno di amarezza, e che si dissolve (per loro fortuna) nell’aria una volta optato per il single-player. John non vi seguirà come una palestrata Sheva di Resident Evil 5 in ogni dove, ma apparirà dal cilindro magico a ogni cut-scene, andandosene a zonzo con gli altri personaggi comprimari. Tra questi, a spiccare sono Ellie e Robert (il superiore della squadra di John), che caleranno entrambi sul tavolo delle “carte” davvero niente male, soprattutto durante le sequenze avanzate. Già, le sequenze avanzate. No, non temete, perché anche una volta atterrati (col botto, inutile dirlo) su Tau Volantis, l’ottima sinfonia messa su disco da almeno cinque ore di gioco a questa parte, non finirà con lo stonare. Tutt’altro: la necessità di mantenere alta la nostra temperatura corporea mentre una tormenta di neve dagli evidenti rimandi unchartediani offuscherà la nostra vista, sfocerà in sbocchi di gamplay ben più fantasiosi che quelli già visti su E.D.N.III. E anche la struttura “falso open world” finisce con il plasmarsi alla perfezione con la nuova indole sfoggiata da Visceral in onore del buon Carpenter (chissà in quanti tra voi avranno poi giocato La cosa, quel vecchio classico per PS2 partorito da Computer Artwork), in fondo.

Che poi con Dead Space 3 anche chi preferirebbe giocare a tutt’altro (COD?) possa passare dei bei quarti d’ora grazie alla co-op online, a chi gioca Resident Evil 2 sul suo cellulare quanto potrà importare? Di sicuro, non è un’aggiunta che ha stravolto uno dei più viscerali incubi su dati digitali che ancora riescono a far sussultare il nostro cuore, avviare i pistoni giusti delle paure più recondite, e ricordarci tutto il piacere di giocare soli, al buio, illuminati da uno schermo intermittente. Come se quell’estate del 1996 in cui Capcom pubblicò il papà della sua saga horror più famosa di sempre non fosse mai passata. Serve davvero aggiungere altro?

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