L’industria del videogioco sta crescendo. Sembra impossibile, ma in circa 40 anni dalla sua nascita, ha subìto un cambiamento esponenziale sia dal punto di vista tecnico che da quello artistico. Dal Magnavox Odyssey alla Playstation 4 odierna, dai giochi come Pong a quelli più complicati e sofisticati come The Last of Us; la concezione e la trattazione dei temi nei videogiochi è maturata a tal punto da spingerci, talvolta, a vivere con personaggi virtuali le loro avventure e le loro sofferenze, proprio come faremmo leggendo un buon libro o guardando un film. Negli ultimi anni in particolare, le storie che più hanno commosso sono quelle che, come protagoniste, avevano delle donne. Non semplici donne, ma delle vere e proprie forze della natura: stiamo parlando della figura della donna/bambina.
L’importanza della donna, in un media giovane come quello dei videogiochi, nasce relativamente presto, ma la vera potenza del sesso femminile risiede nella loro forma più innocente, quella fanciullesca che nelle Opere Multimediali Interattive (OMI) risultano essere delle vere e proprie eroine moderne. La prima che prenderò in esame (partendo dal fatto che sono piuttosto giovane) è Clementine che, nel non così lontano 2012, fu una delle prime fanciulle a sfoderare le unghie in una delle situazioni non più rosee possibili nell’avventura grafica firmata TellTale, The Walking Dead. In un’epidemia zombie, una bambina si trova a dover affrontare una realtà brutale, catastrofica, paragonabile agli scenari di guerra dei giorni nostri. Una bambina la cui forza è stata forgiata da quello che risulta il suo pilastro, Lee Everett, il quale ricoprirà per tutto il gioco il ruolo di protagonista e “padre” di Clementine. Una bambina che, forse, cresce troppo in fretta. Durante tutto il gioco si percepisce il pathos tra i due personaggi, e si vive con loro un climax ascendente tra atroci omicidi e dolci momenti. Personalmente, è il personaggio a cui più mi sono affezionato e con cui, nei momenti di tensione maggiore, mi sono trovato a provare le stesse sensazioni, le stesse paure. Impersonarsi in un bambina/o, solitamente privo di difese, è ben diverso che immedesimarsi nel Kratos o nel Geralt di turno.
Al di là del personaggio in sé, quello che è veramente forte è il legame che queste piccole protagoniste instaurano con uno degli altri personaggi principali della storia che si rifà quasi sempre al rapporto “padre/figlia”, rapporto che per entrambi gli individui non è stato possibile avere nei loro rispettivi passati. Riguardo ciò, come non si può citare Ellie di The Last of Us, una delle icone principali che ha caratterizzato il 2013. A differenza di Clementine, Ellie è meno ingenua, dato anche dal fatto che sia già in una fase adolescenziale e rappresenta, se vogliamo, la consapevolezza della vita, la bambina che diventa adulta. La sua avventura evolve, come evolve quella di Clementine, ma con una forza diversa data dalla ricerca della verità su se stessa e sul segreto che porta con sé. Il rapporto con Joel, in particolare, parte da una base di odio reciproco, a differenza del rapporto tra Clementine e Lee, per poi crescere fino a consolidarsi a tal punto da portare ad un epilogo tanto inaspettato quanto, tuttavia, condiviso da gran parte degli utenti che hanno giocato il gioco.
Ma se si parla di adolescenza, bisogna fare anche un salto in casa Square Enix, dopo averci fatto commuovere e appassionare ad un titolo come Life is Strange, uscito lo scorso anno. Qui non si parla di situazione apocalittica o al limite della sopravvivenza, ma della surreale vita di Maxine Caulfield (Max), diciottenne che scopre di avere un particolare potere, quello di poter riavvolgere il tempo a suo piacimento. Sebbene lo scenario non sia dei più realistici, Max rappresenta la vita delle adolescenti moderne, dai problemi a scuola alle prime cotte. Rappresenta l’amicizia e l’amore, ma anche l’angoscia e le preoccupazioni attraverso cui tutti noi siamo passati. Per quanto le storie di Clementine e Ellie siano potenti ed estremamente toccanti, ritengo che vivere l’avventura di Max sia tutta un’altra cosa poiché, come detto prima, potrebbe rappresentare la nostra vita, il nostro passato. Insomma, il coinvolgimento oggettivamente parlando, è maggiore.
Ma ormai ci si sta spingendo sempre oltre, con l’intenzione di raccontare e/o denunciare i soprusi e le ingiustizie subite dai bambini che spesso vengono occultate da una società ormai corrotta da tempo: questo è successo in The Town of Light, dove si racconta della storia della piccola Renèe, rinchiusa contro la sua volontà nel manicomio di Volterra, in Italia, dentro cui subiva tra i più atroci dei trattamenti: dalla tortura allo stupro, si vede una bambina che non ha via di scampo e che non può essere aiutata da nessuno, se non da sé stessa. L’unica cosa che possiamo fare all’interno del gioco? Subire a nostra volta le schifezze e i maltrattamenti inflitti a Renée, impotenti di fronte ad una società malata.
Detto tutto ciò, possiamo affermare che il videogioco stia crescendo e maturando a vista d’occhio? Possiamo dire oggi, 8 marzo e festa delle donne, che il media del videogioco può sensibilizzare il mondo intero su argomenti tanto delicati quanto complicati? A gran voce, io rispondo sì. Non è una moda del momento, non sono scelte puramente commerciali, c’è molto altro dietro. C’è un’umanità.