Una vera e propria quadratura del cerchio, quella che Disney ha tentato di fare con questa nuova operazione CGI dedicata ancora una volta al mondo della savana di Simba e compagnia. Stavolta però si va a ritroso nel tempo, guardando verso il cielo stellato con occhi diversi da quelli di Simba, dove ha spesso cercato consiglio nel corso delle sue avventure, sia da giovane leoncino nel primo Re Leone, sia nel secondo film sequel, Il regno di Simba. Dallo scorso 19 dicembre infatti, Disney e la regia di Barry Jenkins hanno voluto aprirci gli occhi con un’operazione nostalgia dedicata alla storia di Mufasa, celebrando così anche i 30 anni dall’uscita del cartone animato de Il Re Leone, e 5 dal remake in computer grafica dello stesso film. Mufasa Il Re Leone, prequel dedicato alla storia di come il padre di Simba sia diventato il primo re di una nuova dinastia, porta alla luce tutti i segreti di come nasce un re, e non solo lui. Scopriamo da vicino come è andata questa nuova avventura dei leoni Disney più amati dal pubblico nella nostra recensione, priva di spoiler il più possibile come di consueto.
Mufasa Il Re Leone: storia di un reietto regale
Sapevate che Simba aveva avuto un secondo figlio, Kion, dopo Kiara? Lo si narra nella serie animata The Lion Guard, ed è proprio l’imminente nascita di questo secondo cucciolo di leone che diventa l’occasione per Kiara di scoprire le sue radici, in particolare la storia di suo nonno Mufasa, e non solo. Mentre Simba deve assistere Nala nel corso della gestazione, Kiara rimane sola con Timon e Pumba, oltre che con il buon Rafiki, lo sciamano mandrillo che le racconta tutte le vicende di come il piccolo Mufasa sia diventato re, un percorso lungo e difficile, che ci pone di fronte alla sparizione della linearità pacifica e perfetta del cosiddetto cerchio della vita, concetto tanto caro alla narrazione espressa nel franchise del Re Leone.
Qui cominciano infatti i profondi divari con valori e topoi presentati tradizionalmente nell’originale cartone animato, dove i principali tratti erano dettati dall’esaltazione della famiglia e del naturale corso degli eventi, con i figli che prendono il posto dei padri per seguirne le stesse orme secondo il conservatorismo classico delle monarchie. Il film dedicato a Mufasa invece è l’opposto, mostrando come Disney stia costantemente raccontando una nuova idea di società, proprio a partire da quello che era in origine Mufasa. Un cucciolo di leone sperduto dopo che una piena del fiume lo ha strappato ai suoi genitori, e di conseguenza accolto con parecchie difficoltà da una famiglia di leoni che regna sulle terre dove approda, mal visto in particolare dal re di quelle terre, Obasi. Questi ha un figlio, Taka, il principe destinato a ereditare il regno dal padre, e con il quale Mufasa lega molto fin da subito, ma purtroppo è anche il più predisposto a quel ruolo. E questo verrà notato da tutti, anche dalla sagace e temeraria Sarabi, leonessa che i due incontrano mentre sono giovani adolescenti.
Cuori infranti segnati per sempre
Non avete ancora capito chi è Taka? Niente spoiler come promesso, ma è Sarabi a diventare il vero motore propulsore di tutta l’azione nella seconda metà del film, oltre che segnare il giro di boa definitivo nella relazione tra i due fratelli, e vi lasciamo con questo aspetto per non rivelarvi altro. Concentriamoci invece su valori e significati emersi dalla scrittura di questo film, dove l’idea di fondo del prequel è ottima, con la vicenda dei protagonisti spesso alle prese con l’inseguimento da parte dei leoni bianchi, antagonisti fino alla fine, mentre i tre giovani leoni cercano una mitologica terra promessa, chiamata Milele. La scrittura di questa vicenda però è frettolosa, poco costruita e con troppa carne al fuoco, ma rimasta decisamente cruda e indigesta. Ci sono fin troppi eventi e umori che cambiano da un momento all’altro, non sempre con evidenti nodi narrativi consequenziali, così come l’azione, quasi fin troppo abbondante, ha una narrazione piuttosto scadente.
Sembra infatti che tutti gli sforzi si siano concentrati sulla costruzione del set virtuale, cercando di creare un continuo dinamismo per esaltare a ogni fotogramma quel vero e proprio trionfo della tecnologia CGI che è Mufasa Il Re Leone, rendendo ogni dettaglio decisamente iperrealistico sullo schermo e spingendo i limiti di questa tecnica computerizzata a livelli di performance decisamente importanti. Questo aspetto rende il film in questione decisamente realizzato bene dal punto di vista tecnico, con un livello di animazione straordinario, ma mostrando quasi eccessivo sforzo tecnico ed estetico a scapito di una scrittura scarsa e poco in linea con quello che abbiamo visto nei cartoni animati. Anche, e soprattutto, con canzoni scarse, sia per ritmo che per testo, con una melodia difficilmente memorabile, e un doppiaggio in italiano non proprio dei migliori.
Un viaggio emozionante a metà
Quello che più ci ha colpito è stato l’obiettivo raggiunto a metà da parte del film: è sicuramente interessante conoscere le origini della storia di Mufasa, e di conseguenza di Simba, per via di diversi personaggi che hanno connotato da sempre questo franchise, ma i valori, l’aspetto davvero sentimentale più profondo e le relazioni vengono sporadicamente tirati in ballo nel corso di circa due ore di lungometraggio. Ci spieghiamo: il principio di fondo della storia ha in potenza degli elementi interessanti, che però non riescono nel loro intento in atto. A fuggire dai temibili leoni bianchi è un gruppo eterogeneo di animali, tutti reietti per qualche motivo, che riescono a creare una famiglia in viaggio, ognuno con i propri obiettivi.
Peccato che la pessima scrittura faccia sì che nessun personaggio abbia una vera personalità emergente sullo schermo: alla fine, sono solo un gruppo di leoni, dove la propria personalità vera fatica a emergere e a empatizzare con noi. Unica eccezione sta in Taka, figura complessa e conflittuale che mostra un vero arco narrativo della sconfitta dell’eroe, ed è l’unico a trasformarsi. Il solo personaggio che riesce a conquistarci; il resto del lavoro dedicato al character design (se così si può definire) è stato dedicato a un’aderenza realistica, che però si traduce anche nell’assenza di espressioni convincenti, solo piccole variazioni, annullando anche i loro sentimenti e lasciando l’aspetto più profondo della storia rasente la superficie.
Forse non era poi così facile realizzare un prequel dedicato al Re Leone per antonomasia, e il duo Barry Jenkins – Jeff Nathanson sono riusciti a portare a casa il risultato solo a metà. Si mira a rendere Mufasa il re “leader”, diplomatico e buono, oltre che giusto. In particolare la volontà di tirare fuori da tutti il proprio meglio e cercare di fare tutto il possibile per la comunità lo rendono diverso da Simba ne Il re leone, ma è anche vero che qui Mufasa arriva ai ruoli apicali per merito, anche se si è orfani al livello più basso della scala sociale. Il racconto però viene scarsamente imbevuto di dettagli e attenzioni alla psicologia dei protagonisti e agli aspetti più e empatici con il pubblico, lasciando che sia la mera azione “pulita” e ben poco truculenta a fare da padrona sullo schermo. Una scrittura comunque scarna, accompagnata da canzoni per nulla memorabili e quasi imbarazzanti, se paragonate ai testi de Il Re Leone, e da una mimica altrettanto povera e da un iperrealismo solo nella rappresentazione grafica dei corpi degli animali e delle ambientazioni, ma non delle lotte e delle interazioni tra loro, fanno sì che questo film sia quasi più un drammatico documentario à la National Geographic, che un CGI di tutto rispetto nei confronti di uno dei re più imponenti e massicci del mondo Disney.
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