Dragon Age The Veilguard mi ha in parte deluso! No, non lo sto dicendo perché mi sono lasciato influenzare dal pensiero comune. Tutt’altro. Anzi, ho cercato di arrivare a questo momento nel modo più blind possibile, ho provato a ‘nascondermi’ e a rimanere estraneo a tutte le vicende che hanno accompagnato il lancio del gioco e, paradossalmente, questo ha reso tutto ancor più spiacevole. Lo devo ammettere: avevo – ingenuamente – maturato delle aspettative forse troppo generose sul gioco e mi sono bastati veramente pochi minuti per comprendere l’errore.
Prima di partire, di lanciarci a capofitto in questa – non sempre – fondamentalmente spiacevole disamina, però, voglio sottolineare che Dragon Age The Veilguard non è un brutto gioco, affatto. È doveroso rimarcarlo, perché il confine tra critica e sentimento è sempre un pericolosissimo campo minato da attraversare, ma il voto e tutta la valutazione che seguirà non può non tenere conto dell’importanza del brand e della storia che il gioco porta con sé. E poi, a essere onesto, alcune cose non funzionano semplicemente e, nel 2024, alcune cose non puoi permetterle, se ti chiami Dragon Age The Veilguard o meno.
Dragon Age The Veilguard: il giogo divino del destino
Dragon Age The Veilguard è collegato direttamente a Inquisition. Solas è un po’ l’epicentro della storia, o almeno ne é l’innesco, così come Varric rappresenta una sorta di narratore esterno, e mentore, per il protagonista di questo nuovo viaggio. Fatta questa doverosa premessa, voglio provare a spiegarvi perché Dragon Age The Veilguard non è riuscito a fare breccia nel mio cuore e immagino anche in tanti altri di voi. Dragon Age The Veilguard smarrisce un po’ eccessivamente la via sul piano dei contenuti, non tanto per la qualità dei contenuti, quanto per il modo in cui ogni argomento viene trattato. Il tema principale della storia, che parla di divinità incazzate, nemici assettati di potere, intrighi politici e, finanche, sprazzi di razzismo, viene raccontato sempre e comunque con un tiro troppo leggero, a tratti ironico, in cui anche le semplici espressioni facciali dei personaggi coinvolti sono afflitti da una scarsa credibilità che rende tutto poco credibile.
È un peccato, perché, sullo sfondo, si nasconde un racconto potenzialmente interessante, in cui, sì, il peso di volti importanti – come Solas – si fa comunque sentire, ma, in qualche modo, il tutto viene sempre e comunque sprecato. Tutto questo, senza considerare la scelta di rendere di rendere il gioco così direttamente collegato al suo predecessore, il che non sarebbe nemmeno una cosa così negativa se non fosse il fatto che, ormai, sono passati veramente tanti anni e il rischio di non riuscire a comprendere appieno tutto ciò c’è dietro alla creazione del mondo di gioco è sempre dietro l’angolo. Questo fattore risulta evidente anche tenendo conto della fase di creazione del personaggio, che rappresenta forse il momento più bello di tutto il gioco. Come ormai già saprete, l’editor di Dragon Age The Veilguard è uno dei più maestosi visti negli ultimi anni, non lo nego e, anzi, lo sottoscrivo, ma il problema è che le “origini” che è possibile dare al proprio alter ego sono ancora una volta fortemente legati al passato del brand e, dunque, per i nuovi giocatori sarà veramente complicato coglierne tutte le sfaccettature.
L’arte della parola
Da buon Dragon Age, anche The Veilguard vuole impostare il tutto su un sistema di gioco che spazia dall’action ai GDR. Ora, sul piano ludico voglio soffermarmi in un secondo momento, e in questa fase voglio spendere due parole per la componente ruolistica del gioco, quella relativa allo sviluppo delle alleanze, le amicizie e tutto ciò che che ruota intorno al classico sistema di scelte e le relative conseguenze. Per farlo, però, devo addentrarmi nel pericolosissimo dei dialoghi e la loro scrittura, e vorrei tanto non doverlo fare. Purtroppo, però, mi tocca e vi dico subito che la scrittura di Dragon Age The Veilguard, soprattutto in tal direzione, si dimostra poco a fuoco. Le linee di dialogo tracciate dal team di sviluppo, spesso, non conducono a nulla, e come vi ho già detto per la storia in senso generale, sono quasi sempre accompagnata da una vena quasi comica a volte inspiegabile. Si tratta di una scelta stilistica che rende tutto una grande occasione mancata, perché alcuni personaggi riescono anche a trasmettere una buona dose di carattere e possono anche contare su una buona storia pregressa da raccontare, ma il tutto viene velocemente e inequivocabilmente rovinato da scelte poco chiare e poco a fuoco.
Il poco carattere dei personaggi, compreso quello del protagonista, che spesso possiamo limitare a rispondere semplicemente con toni più o meno altezzosi e sgarbati, si riversa anche sul peso delle scelte, che spesso e volentieri sembrano non riuscire a riflettersi veramente su ciò che accade poi nel mondo di gioco. È una mancanza un po’ pesante, che si allinea al “nuovo percorso” tracciato da BioWare , ma l’obiettivo finale di non scontentare mai veramente nessuno e di far sentire tutti in qualche modo parte del gioco, ha poi pesato sull’economa e sullo sviluppo del gioco, in tal senso. Ne è un esempio un pezzo da novanta del brand come Varric , che qui sembra non avere la minima preoccupazione per il fatto che il mondo sta per essere distrutto e, per giunta, per buona parte è anche un po’ colpa sua, ma non sembra mai essere un problema. Per fortuna, la baracca viene in qualche modo salvata dal fatto che i membri del party, quando sono effettivamente nella squadra attiva, si lasciano andare alle solite chiacchiere da bar che, per quanto scarsamente a fuoco, riescono comunque ad aiutare il giocatore ad avere un quadro un po’ più chiaro dell’insieme e di cose effettivamente si sta facendo e perché. Tutto questo senza trattare il design e la caratterizzazione dei nemici, che veramente hanno toccato un livello che non riesco nemmeno a quantificare.
Problemi d’identità e dove trovarli
Il gameplay è l’aspetto che mi ha convinto di più della produzione, ma allo stesso tempo è anche quello che mi ha in qualche modo “ingannato” maggiormente. Dragon Age the Veilguard adotta un sistema ludico simile a quello visto con Inquisition, ma stavolta gli sviluppatori hanno deciso di strizzare l’occhio molto di più alla vena action che a quella ruolistica che, onestamente, mi è sembrata scomparire del tutto. Il giocatore controlla il suo avatar e due alleati, ed è qui che arriva il bello. Gli alleati non hanno una vera barra vitale, quindi potenzialmente sono una sorta di “skill” vivente, anche perché senza il nostro comando si limiteranno quasi sempre a scoccare timidi attacchi basilari, senza osare mai. Il problema è che, poi, gli avversari confermano un po’ questa mia idea, perché puntano quasi esclusivamente il protagonista, generando degli scontri sì spettacolari e moderatamente eccitanti, ma allo stesso tempo complicati e inutilmente difficili da leggere e da gestire, anche perché il lock su questi ultimi è davvero gestito male e rende tutto ancor più caotico. Tutto questo senza contare che il numero di skill utilizzabili è molto limitato e se ne possono equipaggiare soltanto una manciata per volta e gli attacchi base sono veramente molto base, nel senso più stretto della parola. Ciò che ne consegue è un sistema di scontri che sulle prime diverte quanto basta, anche perché di cose da fare ce ne sono tante, ma tutto diventa più noioso dopo poche ore.
Anche per quanto concerne le attività disponibili il discorso non cambia. Le missioni si snodano quasi sempre allo stesso modo: qualche puzzle ambientale, orde di nemici da sconfiggere, boss. Fine. Questo schema è molto ricorrente, e paradossalmente la monotonia generata la si avverte molto di più negli incarichi principali che in quelli secondari, che riescono a risultare un po’ più freschi e diversificati. Il problema maggiore è che le mappe sono veramente troppo piccole e l’esplorazione non è minimamente utile, perché il loot è sempre molto limitato e in generale l’esplorazione non è mai veramente necessaria. Questa scarsa profondità ludica la si avverte anche nella creazione del proprio avatar. Se da un lato possiamo crearlo veramente come più ci piace sul piano estetico, sul piano pratico, invece, ci sono poche possibilità. Il gioco infatti offre solo tre classi, e non è possibile toccare le statistiche per creare build diversificate. Come se non bastasse, lo skill-tree iniziale (ce n’è uno avanzato da lv 20, con ‘classi’ specifiche) costringe quasi a sbloccare un po’ tutte le abilità disponibili, andando così a rendere troppo guidate anche le poche cose su cui si pensa di avere un minimo di controllo. Anche il livello di sfida mi ha convinto veramente poco. I nemici, tralasciando la varietà veramente esigua, subiscono una sorta di impennata di cattiveria verso la seconda metà del gioco, risultando inspiegabilmente ostici da buttare giù, anche perché non è ben chiaro com’è stato gestito il discorso delle debolezze e delle resistenze, che qui sembra veramente gestito molto a caso.
Luci e ombre dal Tevinter
Anche l’impianto audiovisivo vive di profondi alti e bassi. Il colpo d’occhio generale, almeno su PlayStation 5, è molto piacevole, con una buona gestione delle luci e dei particellari che aiutano a creare un’immagine sempre ‘morbida’ e piacevole. Il problema di fondo, però, è che la scelta stilistica che accompagna l’avventura di Rook non si addice, secondo il mio punto di vista, alla natura del gioco e crea un effetto anacronistico. La scelta di dare a tutta la produzione una veste ‘disegnata’ non solo mette in luce l’aspetto sopracitato ma, anzi, rende anche ancora più evidenti i limiti di una produzione con tanti anni (e tanti problemi) di sviluppo sulle spalle. Per intenderci, se si osserva tutto perbene e da vicino, ci si rende conto di quanto Dragon Age The Veilguard sia un prodotto fondamentalmente vecchio, fatti di limiti tecnici anche evidenti, rappresentati in particolare da un comparto animazioni assolutamente non al passo coi tempi.
Sul piano delle prestazioni, il risultato complessivo è discreto. Ho beccato qualche glitch e il frame-rate in alcune situazioni è risultato troppo incerto, ma nel complesso ho potuto giocare in modo sempre “tranquillo”. Quello che, invece, non ho proprio compreso è la gestione della colonna sonora. Per un gioco simile, l’assenza di una colonna sonora forte è un grande limite e, sinceramente, non mi aspettavo una cosa del genere, non per un gioco di una simile portata. Tornando al comparto tecnico, devo ammettere che la modalità performance di PS5 aiuta a smorzare parecchio i problemi sopracitati, e di fatto credo che rappresenti l’unica opzione possibile per godere appieno dell’esperienza di gioco.
Dragon Age The Veilguard è un prodotto con poco carattere, con qualche buon idea di base , ma che non è abbastanza per allinearsi con il passato della serie e con le produzioni più blasonate del recente passato. Se già con Inquisition la strada intrapresa da BioWare poteva risultare tediosa, con quest’ultimo capitolo è chiaro quanto, ormai, la serie Dragon Age ha preso un po’ troppo le distanze da quello che è stato il suo DNA. Non è un brutto gioco in senso assoluto, e chiudendo gli occhi su tanti svarioni anche di natura ludica ci si potrebbe anche divertire, ma non funziona come “sequel” di una saga gloriosa e, secondo me, con una nomenclatura diversa avrebbe potuto ricevere un apprezzamento diverso.
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