Il Robot Selvaggio Recensione: Una fiaba ecologista dal cuore sincero e dalle suggestioni miyazakiane

Adattamento targato Dreamworks Animation della magnifica e omonima opera letteraria, ovvero l’amato e pluripremiato best-seller del New York Times a firma di Peter Brown (Il Robot Selvaggio – in originale The Wild Robot-, romanzo illustrato per ragazzi pubblicato per la prima volta nel 2016 e diventato in breve tempo un vero e proprio fenomeno letterario), si sta rivelando un grande successo anche al cinema e ha conquistato velocemente le vette del botteghino. L’idea, originale e ottimamente sviluppata a livello visivo per la regia di Chris Sanders (Lilo & Stitch, Dragon Trainer), tocca temi importanti e corde molto profonde in grado di arrivare al pubblico bambino, ma anche a quello un po’ più grandicello e navigato, capace di cogliere il senso ultimo del messaggio di adattamento e accoglienza veicolato dal film, e il rapporto controverso ma necessario tra tecnologia e natura, il tutto convogliato in una storia che è simbolo stesso dell’amore e delle sue tante, poliedriche manifestazioni.

Il Robot Selvaggio

Il robot selvaggio è… Mamma Roz

La storia è quella di Roz (Rozzum 7134), un robot naufragato per caso su una terra abitata da una moltitudine di animali, che dovrà cercare di scrollarsi di dosso il suo ruolo di “intelligenza artificiale”, fatto di informazioni preconfezionate e poco elastiche unite all’ossessione di risolvere problemi, per rendersi realmente utile in quell’ambiente che “lui/lei” non conosce né tantomeno comprende. Visto da tutti con sospetto e ribattezzato generalmente come “Il mostro”, la vera svolta di Roz in quella terra selvaggia arriverà quando, finito su un nido di oche e causatane la morte, dovrà farsi carico del piccolo uovo che ancora deve schiudersi, unico superstite della famiglia, e dal quale uscirà un piccolo anatroccolo, poi ribattezzato Beccolustro. A quel punto Roz (nel doppio e ingombrante ruolo di madre surrogata e famiglia adottiva) dovrà in qualche modo accudire, crescere e aiutare il suo piccolo a spiccare (letteralmente) il volo (bellissime le scene dedicate alle prove di volo) diventando madre pur senza avere la componente caratteristica emotiva principale dell’essere vivente, ovvero un cuore, e dovendo quindi spingersi per andare oltre i suoi fisiologici limiti di robot. Ad aiutarla nell’arduo compito ci sarà in primis l’astuta ma leale Fink, una piccola volpe che saprà capire subito le buone intenzioni di Roz e riuscirà, in una certa misura, anche a traghettarla verso il suo compito facendo da tramite tra lei e l’inizialmente ostile mondo animale.

Il robot che aveva un cuore

Il robot selvaggio apre di slancio con una prima parte assai suggestiva dove la qualità e la sofisticatezza dell’immagine in CGI fungono subito da catalizzatori per lo spettatore, ulteriormente cullato da un’atmosfera di colori autunnali e sfocature ricorrenti che rimandano a un mood malinconico ma anche molto caldo e coinvolgente. La parte centrale del film è quella un pochino meno di ritmo, alla quale però fa poi seguito un climax finale davvero toccante che vede al centro la protagonista Roz alle prese con le sue origini e dunque il suo passato che andranno a contrapporsi alla sua scelta, in riferimento alla vita che vuole e alle cose che ha scoperto, e dunque al suo futuro, oramai “contaminati” dai sentimenti conosciuti e apprezzati lungo la sua nuova vita nella dimensione selvaggia.

Il film di Sanders si configura dunque come opera assai ricca che possiede diverse stratificazioni e livelli di lettura, mescolando e alternando valori molto basilari (come l’affezione della mamma adottiva per il suo piccolo), con dinamiche e scontri più complessi (come quello tra la tecnologia e la natura). La forza di questo film che è già un vero successo di critica e pubblico, però, sta nella sua capacità di far confluire tutte queste dimensioni nell’architettura visiva globale di per sé molto stimolante, riportando quindi tutta la congettura di coalizioni e conflitti a un ambiente noto, famigliare e caratteristico come quello del mondo animale. In questo senso il film di Sanders rievoca suggestioni miyazakiane e contempla, similmente, mondi utopici di serena convivenza ai quali tendere e ai quali fare sempre riferimento. La parabola che muta un robot bidimensionale e asservito al volere tecnologico in un’esistenza complessa piena di sfumature e in grado di andare oltre i propri limiti strutturali, impartisce infine una grande lezione di vita, sul libero arbitrio e sulla possibilità (seconda solo alla volontà) di essere altro da ciò per cui siamo stati “progettati” per essere, di vedere oltre i confini del nostro mondo, e di accogliere l’amore nelle tante forme in cui può, sorprendentemente, manifestarsi.


Sicuramente adatto a un pubblico bambino nel suo trattare emozioni molto primordiali, ma idoneo anche al pubblico adulto per la sua capacità di andare a fondo e concepire mondi alternativi abbracciando una girandola di colori e sfumature, Il robot selvaggio è una parabola toccante di accudimento e voglia di riuscire, a tutti i costi, a essere di aiuto per il prossimo. Una storia che mescola pro e contro della tecnologia con il tema della “madre surrogata”, o meglio il tema ancora più ampio su un’idea di famiglia che si fonda sul chi c’è e si prende cura e non semplicemente legata alle proprie origini. Notevoli le qualità tecniche del film e di grande suggestione la qualità visiva. Le voci originali dei protagonisti Roz e Beccolustro sono di  Lupita Nyong’o, Pedro Pascal, mentre per la versione italiana il doppiaggio è rispettivamente di Esther Elisha e Nicolò Bertonelli.


 

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