Megalopolis Recensione: un impero morente

Il Megalopolis scritto, diretto e co-prodotto da Francis Ford Coppola è più un’esperienza personale e divisiva, che un prodotto mediatico che si presta a essere giudicato con “oggettività”. La spiccata ambizione di Coppola si fonde indissolubilmente con la superbia, sfocando i confini che separano inventiva, arte e riflessioni socio-politiche. Per questo motivo, la lettura dell’opera è più che mai dipendente dalle prospettive del singolo, il quale può trovarsi a odiarla visceralmente o a trovare argomenti di risonanza in grado di coinvolgerlo nel profondo. Piuttosto che esprimere un semplice giudizio, ci permettiamo dunque di esplorare come si è arrivati alla comparsa di Megalopolis, così da decifrarne le idee e sondare gli ostacoli che ha dovuto superare.


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Megalopolis offre molte immagini suggestive, ma non lascia loro lo spazio adeguato per essere incisive.

La lunga storia di Megalopolis

Per comprendere meglio la natura di Megalopolis è necessario fare un passo indietro. Anzi, farne molti. A suo modo, il lungometraggio rappresenta la coronazione di una lunga, lunghissima storia progettuale. La scintilla che ha dato il via all’intera operazione filmica è stata la lettura da parte di Coppola di Dodici contro gli Dèi, libro di William Bolitho Ryall in cui vengono esplorate figure storiche che Friedrich Nietzsche non avrebbe esitato a etichettare come Übermensch, super-uomini pronti a violare le norme e le leggi pur di perseguire i loro alti obiettivi. A colpire il regista non furono però Alessandro Magno, Maometto o Napoleone, quanto Lucio Sergio Catilina, politico che cercò infruttuosamente di riformare la Repubblica romana attraverso una congiura annegata nel sangue. Coppola, ammaliato dal personaggio, iniziò a compilare appunti e note con l’intenzione di produrre nel tempo un copione che riflettesse le vicende di Catilina nella contemporaneità statunitense. Questo procedimento ebbe inizio più di quarant’anni fa.

Nonostante i suoi successi di botteghino e critica, il regista non riuscì mai a trovare una casa di produzione pronta a scommettere sulla sua visione, quindi lo sviluppo di Megalopolis veniva regolarmente rinviato per lasciare spazio a progetti più concretizzabili e, soprattutto, monetizzabili. Le risorse finanziarie di Coppola venivano d’altronde riversate nell’American Zoetrope, una sua personale casa di produzione che aveva l’obiettivo di sovvertire il panorama hollywoodiano puntando su produzioni d’avanguardia, ma anche un’azienda che mirava a intessere una nuova visione dei rapporti sociali e imprenditoriali. Voleva essere una “factory” virtuosa in cui cineasti indipendenti potevano confrontarsi in dibattiti intellettuali, condivisioni creative e libertà sociali. Una Scuola in cui gli immaginari potessero prendere forma e ibridarsi. Sotto certi versi, questo progetto fu un successo e ha sviluppato una rete di contatti e di talenti di grande impatto, tuttavia perché l’istituzione rimanesse a galla, Coppola ha dovuto compiere enormi sacrifici, compreso quello di mettersi alla regia di film che non avrebbe mai e poi mai voluto fare. Film come Il padrino.

Coppola non ha certamente puntato sulla sottigliezza.

I tormenti del giovane Coppola

Coppola non era riuscito a fare a meno di proiettarsi sulla leggenda di Catilina. Si percepiva come un creativo illuminato che guardava al futuro, gravato però da un universo decadente affine a quello romano, un mondo in cui gli umani erano schiavi dei loro bisogni immediati. Il desiderio di plasmare Megalopolis si è tradotto in una crociata dalle sembianze di un’odissea. Il copione è stato scritto e rimaneggiato molteplici volte, sono stati selezionati attori che poi sono diventati troppo vecchi per le parti a cui si sarebbero dovuti prestare, sono state effettuate riprese che sono rimaste inutilizzate per anni. Una storia tormentata che sembrava in procinto di evolversi positivamente con l’avvento del secondo millennio, tuttavia la distruzione delle torri gemelle ha imposto di rivedere la tabella di marcia. Coppola ritenne che non fosse il momento di dipingere gli USA al pari di un Impero barocco e decadente in procinto di collassare.

Tutto è ripartito vent’anni dopo, giusto in tempo per incappare nella pandemia di coronavirus. L’intera produzione è comunque stata traviata da numerosi problemi interni, ma anche da scelte giudicate da alcuni come controverse. A un certo punto, Coppola ha licenziato l’intero team artistico, rivedendo dalle fondamenta la direzione visiva della sua pellicola. All’autore era inoltre venuto in mente di introdurre un certo grado di interattività con il pubblico, traguardo che aveva intenzione di coronare coinvolgendo Amazon e, più nello specifico, l’assistente vocale Alexa. Il sodalizio con la Big Tech era iniziato nel migliore dei modi, tuttavia l’avvento dell’intelligenza artificiale e le scarse prestazioni finanziarie dell’assistente vocale hanno convinto Amazon a tagliare i fondi allo strumento. Il team di programmatori dedicato ad Alexa ha subito una ristrutturazione radicale e Megalopolis si è trovato improvvisamente “orfano” di questa idea, costretto a ripiegare su degli escamotage claudicanti pur di perseguire una qualche forma di coesione.

Ci sono dunque state molte vocali proteste per quanto riguarda la selezione del casting. Soggetti come Shia LaBeouf, accusato di violenza sessuale, e Jon Voight, esplicito sostenitore della Destra MAGA, non sono graditi a Hollywood, tuttavia Coppola ha tenuto ardentemente a coinvolgerli, sostenendo di non voler dar vita a “una produzione woke”. Prospettandosi un riscontro della pellicola molto acceso e negativo, gli addetti della sezione promozionale hanno dunque deciso di correre ai ripari e imbastire una campagna pubblicitaria estremamente aggressiva. I messaggi pubblicitari si sono fatti scudo delle critiche adoperando le critiche stesse, ovvero hanno evidenziato sin da subito che anche alcuni vecchi capolavori del regista fossero stati originariamente vessati dalle opinioni negative di sedicenti intellettuali. A dimostrarlo erano degli impietosi virgolettati che, però, si è scoperto fossero stati inventati di sana pianta. Verosimilmente, che qualcuno abbia chiesto a un’IA di fornire delle citazioni opportune e che nessuno abbia poi avuto la decenza di controllarne l’affidabilità delle allucinazioni digitali.

Sottile quanto una trave d’acciaio.

Megalopolis: un impero che crolla

Questo lungo preambolo è vitale per comprendere quali fossero gli obiettivi di Coppola e di come l’intero progetto sia sbriciolato sotto il proprio peso. Megalopolis dipinge New York – e, per estensione, gli interi Stati Uniti – esplicitamente come un Impero Romano debosciato e decadente in cui i cittadini non credono più nelle istituzioni. In questo universo corrotto, il potere viene spartito tra politici pragmatici e privi di scrupoli – il sindaco Franklyn Cicero interpretato da Giancarlo Esposito – e opulenti banchieri i cui soldi possono cambiare le sorti del mondo – l’Hamilton Crassus III di Voight –, ma nessuno di loro sembra essere veramente in grado di soddisfare i bisogni materiali e psicologici del popolo. 

In contrasto a queste figure si erge Cesar Catilina – Adam Driver –, influente e visionario architetto che ambisce a sviluppare la città muovendosi verso orizzonti lontani e virtuosi. Il suo sogno è quello di un’utopia in cui tutte le parti sociali siano stimolate a partecipare al dibattito pubblico e in cui i dubbi e le domande siano da considerare come stimoli propedeutici alla crescita. Attraverso il confronto e la critica, Catilina confida dunque di sviluppare un mondo migliore da cedere alle nuove generazioni. Il parallelismo con il progetto originale di American Zoetrope è tanto palese da essere didascalico. Coppola riversa le sue idee nella pellicola, ma questa non gli si dimostra grata. Anzi, evidenzia inceriminosamente tutte le criticità del suo pensiero. Le buone intenzioni di Catilina sono infatti subordinate al fatto che il suo progetto architettonico debba essere realizzato a ogni costo, la sua volontà e la sua voce devono per necessità di cose sovrastare quelle dei suoi oppositori, nella certezza che i risultati finali saranno in grado di redimere anche le opinioni di coloro che sono a lui avversi. Una presunzione sociologicamente e politicamente molto dubbia, che la pellicola premia con degli esiti tanto estremi da essere clowneschi: illuminati dalla Verità, anche i populisti più violenti e fascisti sono pronti a rivedere immediatamente le proprie idee, abbracciando dal nulla la tolleranza. 

Questa altalenanza tra obiettivi alti e concretizzazioni semplicistiche macchia l’intera opera, la quale è probabilmente fiaccata dalle cicatrici dovute alla lunga gestazione e alla necessità di tagliare una quantità significativa di contenuti. Alcuni personaggi scompaiono dalla narrazione senza lasciare segno, eventi vengono introdotti in maniera sconclusionata e il tutto viene ritmato da immaginari visionari e onirici che sembrano stonare contro la banalizzazione di un’allegoria tanto esplicita. Le carenze si fanno particolarmente evidenti nella seconda metà del lungometraggio, sezione che pare cannibalizzata e accelerata in maniera sgraziata e caotica. Il fatto che il copione citi senza sosta William Shakespeare, si accompagni a un narratore dalla voce profonda – Laurence Fishburne – e che si destreggi in qualche linea di dialogo in latino non aiuta certamente la situazione e contribuisce a sollecitare una chiave di lettura per cui lo spirito visionario di Coppola si sia corrotto fino a mutare in un’arroganza autocelebrativa. 

Aubrey Plaza interpreta una creatrice di contenuti che cerca disperatamente di scalare la piramide dell’influenza politica. Molto attuale.

Nel marciume, la speranza

Megalopolis è un film che è assolutamente libero dai vincoli del Mercato. È creatività allo stato puro, per quanto esso sia indiscutibilmente capriccioso e leggermente onanistico. Autofinanziandosi, Coppola è stato in grado di esplorare visioni che altrimenti non avrebbero mai attecchito, proponendo un qualcosa di anomalo e inedito. A suo modo, Megalopolis è da celebrare. C’è da augurarsi che altri autori e altri progetti possano vantare altrettanta licenza autoriale, così da poter perseguire punti di vista inediti e audaci. Soprattutto se questi si concentrano sul promuovere un’immagine positiva e speranzosa del futuro, un’idea che in questo periodo è tanto estranea al cinema, quanto aliena al discorso politico dominante. Allo stesso tempo, risulta estremamente frustrante l’assistere a come tutte le buone intuizioni sviluppate da Coppola in questa pellicola siano poi state da lui stesso svilite in fase di esecuzione.

L’idea di arruolare Shia LaBeouf e Jon Voight al fine di affidare loro dei ruoli che sovvertono il loro reciproco Credo politico poteva essere interessante, soprattutto nella prospettiva di voler imbastire quei sentimenti di empatia, dialogo e confronto che rappresentano il tema fondante dell’intera opera. Tuttavia, il ruolo di questi attori è tutto sommato relegato ai margini, viene accantonato per lasciare spazio a Catilina e al suo principale antagonista, Franklyn Cicero. Ovvero i due personaggi che più rappresentano Coppola. Loro rappresentano senza troppe ambiguità i diversi stimoli che hanno mosso la carriera del regista: l’energia generativa che mira a obbiettivi alti e la concretezza di un mondo che ha esigenze impellenti, la politica e la realpolitik. L’eventuale poetica di questo rapporto viene però grandemente lesionata dal fatto che il regista abbia deciso di palesare il legame rimarcando l’ovvietà che “Franklyn” non sia altro che un diminutivo di “Francis”, un altro lato del suo Ego.

Un problema simile viene dunque incarnato dalle scene che si radicano nel simbolismo. Queste tendono tutte a essere estremamente belle. Teatralità allo stato puro. Ombre, coreografie, mimica e recitazione si intessono in esperienze surreali che richiamano alla mente quelle feconde confusioni che erano parte integrante dell’arsenale di autori quali David Lynch. Ma se Lynch si è sempre rifiutato di spiegare i suoi universi per favorire gli sforzi ragionativi del pubblico, Coppola indulge fin troppo nella necessità di tenere per mano il suo spettatore. I potenti stimoli visivi offerti da Megalopolis scricchiolano nel momento in cui la loro possibile profondità viene banalizzata da indicazioni tanto esplicite da condizionarne radicalmente la lettura. Forse, l’ovvietà perseguita da Coppola in questo film rappresenta l’unica ricetta veramente utile a far fronte a quest’epoca fatta di grandi propagande e di menzogne istituzionali, tuttavia ci è difficile non leggere Megalopolis come una favola pretenziosa che cerca disperatamente di prendere la forma di un lascito. Di un qualcosa attraverso cui il regista vorrebbe dar vita a un’utopia che porta il suo nome.


Megalopolis è un film complesso. Libero dai condizionamenti delle normali produzioni cinematografiche, si abbandona in riflessioni e in ricerche visive che altrove non troverebbero mai spazio. Il suo impatto tecnico e immaginifico è indiscutibile, costumi e scenografie sono mozzafiato, tuttavia l’intera opera viene appesantita da una gestione dei contenuti tendenzialmente narcisista e pretenziosa, ma anche caotica e inconsistente. Considerata la sua tormentata genesi, l’esistenza stessa di Megalopolis ha un nonché di miracoloso ed eccentrico, peccato solamente che le sue idee più interessanti non siano adeguatamente perseguite e che queste cedano il passo a un prodotto il cui tono si presenta marcatamente frammentato.


 

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