Il primo Dead Rising, per l’anagrafe appena maggiorenne, fa parte di quella rara categoria di videogiochi che ancora osa sperimentare e che propone grande cura nel game design. Nato dalla mente di Keiji Inafune come seguito di Shadow of Rome e poi riadattato, persegue uno stile divertente e scanzonato, intriso di humor nero, mostrando scene fuori dalle righe e giocando con gli stereotipi: talmente provocatorio che Capcom ha preferito eliminare scene e modificare dialoghi. Ambientato interamente in un centro commerciale, strizza chiaramente l’occhio a Zombi, il cult movie di Romero del 1978, non solo per l’ambientazione e per la presenza del proletariato non morto (cit.), ma anche per la fortissima critica al consumismo.
Dead Rising: Kill ‘em (m)all
Dead Rising è stato, secondo me, uno dei titoli più importanti della sua generazione. Nonostante i suoi difetti, come il sistema di combattimento legnoso e la terribile IA dei sopravvissuti, offre una sfida intensissima e tensione continua, punendo severamente chi gioca con disattenzione. Non è adatto a tutti, o lo si ama o lo si odia. Zombie, sopravvissuti, centro commerciale, e qualsiasi oggetto a disposizione come arma: mescolate e shakerate tutto. La modalità storia ha una durata predefinita di 72 ore. Gli eventi, sia della trama principale che delle missioni secondarie, si svolgono in finestre temporali precise e piuttosto strette, lasciando poco spazio per bighellonare. A meno che non siate disposti ad ignorare i superstiti in difficoltà o a trascurare gli psicopatici che hanno preso il controllo del centro commerciale. Frank West, fotografo freelance fuori forma, opportunista, alla ricerca della svolta, con una morale discutibile e un debole per le donne, è l’anti-eroe perfetto ed il protagonista di questa storia. Ad accompagnarne le gesta c’è una maestosa colonna sonora: un mix eccellente di generi, con brani esistenti e nuove composizioni ad opera di Hideki Okugawa e Marika Suzuki, spaziando tra elettronica, metal e country, tra i vari.
…And justice for (m)all
Capcom torna a sistemare le cose, ricreando ad arte i violentissimi eventi di Willamette con il RE Engine, con un risultato apprezzabile ma che non raggiunge altre produzioni recenti dello stesso motore grafico, specialmente per quanto riguarda le animazioni e le espressioni facciali. Oltre a rifarsi il trucco, ha aggiunto una serie di miglioramenti che rendono il gioco molto più accessibile rispetto al passato. Partendo dalla terribile intelligenza artificiale dei superstiti, che tante scomuniche ha causato, arrivando all’autosave attivato ad ogni transizione d’area, che evita di dover ripetere intere sezioni per un singolo errore. È stata introdotta la possibilità di saltare le cutscene e di accelerare il tempo a piacere. Controlli rivisti, con la possibilità di ripristinare gli originali per i puristi. Aggiustamenti che riguardano un po’ tutti gli ambiti: l’albero dei talenti, l’implementazione di una barra che indica la durata delle armi, un compasso che indica anche la distanza dell’obiettivo al posto delle frecce direzionali, l’esperienza necessaria all’aumento di livello significativamente ridotta ed infine la revisione della macchina fotografica. Piccoli miglioramenti che però uniti rendono Dead Rising Deluxe Remaster ben più di una semplice rinfrescata, ma la più godibile iterazione del miglior capitolo della serie. Il gameplay, pur con qualche compromesso per renderlo più accessibile, mantiene intatta la sua essenza, offrendo un’esperienza frenetica e divertente.
Dead Rising: Gotta catch ‘em (m)all
Il gameplay colpì per l’impostazione open world e la grande quantità di contenuti. Il vasto arsenale di armi e oggetti, tra cui citazioni a franchise Capcom, rendeva il gioco un mondo in cui sperimentare. L’esplorazione veniva premiata, con molti eventi nascosti non segnalati, armi segrete, scorciatoie. Il sistema a tempo della modalità storia, criticato da alcuni, offriva però un’elevata rigiocabilità e 7 finali diversi, richiedendo scelte strategiche. Va detto che alcune modifiche hanno alterato il delicato bilanciamento: i nuovi controlli, la possibilità di spostarsi mentre si mira, a fronte del mancato ribilanciamento degli psicopatici (i boss del gioco) hanno reso gli scontri decisamente più semplici rispetto al passato. Anche l’esplorazione è stata facilitata grazie alla riduzione dell’aggressività degli zombie e del loro numero, soprattutto nell’ultimo terzo del gioco, disperdendo parte della tensione presente nell’originale, dove in alcune fasi era difficile persino camminare a causa della folla di nemici. L’esperienza scorre con maggior agilità e senza intoppi per tutte le 20 ore che mi hanno portato al vero finale, ma non è detto che sia un bene. Tornano tutte le modalità aggiuntive: la modalità extra e soprattutto l’infinity mode, che finalmente permette di salvare, presentando una sfida aggiuntiva di sopravvivenza e rimescolando ulteriormente le carte. È sempre bello poter dire che ai sottotitoli in italiano si è aggiunto anche il doppiaggio nella nostra lingua, anche se la resa finale è appena sufficiente.
Conclusioni
Lo splatter secondo Capcom è ancora oggi un mix unico di follia, violenza e critica sociale. Le situazioni proposte e gli psicopatici sono incredibilmente inquietanti, sia allora che oggi, oscillando continuamente tra incubo e commedia, con un’unica certezza: essere perennemente inzuppati di sangue dalla testa ai piedi.
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