Astro Bot Recensione: oltre le stelle, ma non troppo

giochi in uscita a settembre astro bot

I più nostalgici ricorderanno con affetto quell’era lontana in cui i diversi brand videoludici facevano a gara per associare la propria identità a mascotte che li rappresentassero in modo iconico. Klonoa, Bubsy, Captain Commando, Alex Kidd, Gex, e persino Crash Bandicoot, Spyro e Master Chief sono tutti “figli” di questa strategia volta a creare un forte senso di riconoscibilità. Oggi, l’ethos di quei tempi sembra rivivere con Astro Bot, gioco del Team Asobi interamente dedicato al sempre più celebre robottino-ambasciatore di Sony PlayStation. Questo platform dal tono giocoso e fanciullesco si colloca a cavallo tra videogioco, fanservice e contenuto promozionale dal carattere autocelebrativo, un’alchimia complessa che gli sviluppatori sono riusciti a giostrare con arguzia.

Una galassia piena di avventure si apre innanzi al piccolo robottino.

Passato e presente di un Astro Bot brandizzato

Il personaggio di Astro ha fatto il suo debutto su PlayStation 4, in un minigioco presente in The Playroom, quindi ha assunto ulteriore spessore nel Robots Rescue che era custodito all’interno di The Playroom VR. All’epoca, il piccolo robot non aveva ancora un nome, era semplicemente un avatar orientato al gameplay. Questo “anonimato” è stato fortunatamente corretto con l’uscita di Astro Bot Rescue Mission, un titolo per realtà virtuale in cui il Team Asobi ha esplorato in profondità l’universo videoludico che sarebbe poi diventato il cuore pulsante del brand. Per quanto amato fosse amato dai fan, il destino di Astro ai tempi della PlayStation 4 è stato però confinato al ramo della realtà virtuale, un limite che ne ha decisamente contenuto il potenziale.

Le cose sono cambiate nel 2020 con l’avvento della PlayStation 5. Astro si è finalmente emancipato dal vincolo del VR, diventando il simbolo delle straordinarie capacità della nuova generazione di console e del controller wireless DualSense. In quell’occasione, il personaggio è stato infatti messo al centro di Astro’s Playroom, una tech demo gratuita preinstallata su tutte le PlayStation 5, un’accortezza che ha permesso a tutti i giocatori di familiarizzare con la simpatica mascotte, nonché di apprezzarne l’irresistibile dolcezza.

Con il gioco Astro Bot, quindi, il robottino si trova a vivere una specie di “soft reboot” che gli permette di replicare alcune delle tematiche e dei soggetti già affrontati da Astro Bot Rescue Mission. Questa sicurezza ha garantito al Team Asobi la serenità necessaria a esplorare ulteriormente le possibilità del brand, tuttavia pare che la direzione artistica di Nicolas Doucet abbia puntato sul “di più”, anziché sul “meglio”, frustrando parzialmente l’opportunità artistica che il titolo gli avrebbe concesso.

Il powerup della miniaturizzazione viene esplorato in un unico livello, ma è estremamente appagante.

Un nuovo inizio per il robottino Sony

Non c’è modo di parafrasare il concetto: Astro Bot è squisito. Squisito nel senso che la cura della sua progettazione è maniacale, aderisce perfettamente agli alti standard di attenzione al dettaglio che Sony pretende da tutte le produzioni pensate specificatamente per la PlayStation. Il protagonista, già amabile di suo, viene valorizzato da ambienti che si armonizzano alle sue estetiche. Tutto è colorato, smussato, lucido e arrotondato. Anche i livelli più tetri – quelli ispirati alle tematiche horror – sono colmi di vita ed estremamente dinamici, fattori che vengono ulteriormente supportati dalla costante presenza di elementi di contorno che sono ironici e leggeri.

I singoli stage, pur nella loro linearità, sono vibranti e colmi di dettagli, ricchi di oggetti con cui interagire, anche solo per il piacere di vedere come reagiscono ai diversi comandi imposti dagli utenti. Il DualSense viene sfruttato in modo magistrale per conferire una fisicità straordinaria agli elementi presenti su schermo: il feedback sonoro delle casse interne al controller, quello tattile simulato dalla vibrazione e la tecnica grafica degli elementi di scena sono orchestrati con una maestria tale da avviluppare il giocatore in un’esperienza profonda e coinvolgente.

Siamo certi che questo presupposto sarebbe già di per sé sufficiente a convincere qualsiasi gamer a sondare a fondo le peculiarità dei singoli livelli, tuttavia l’esplorabilità dei mondi di gioco viene ulteriormente fomentata dalla presenza di collezionabili che assumono la forma di robottini da salvare. Sparsi per il gioco ci sono 300 droidi da reclutare, alcuni dei quali sono “VIP” che omaggiano in modo spiritoso i pilastri della storia di PlayStation. Salvare questi robottini non è però solamente un atto di puro fanservice, delizioso e nostalgico, ma ha anche una funzione pratica: l’hub centrale del gioco presenta ostacoli che, in pieno stile Pikmin, richiedono l’aiuto di numerosi compagni per essere superati. Si tratta di un’idea brillante, esplorata da pochi videogame, ma che purtroppo viene qui sfruttata solamente su un piano molto superficiale.

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I robot VIP sono ovunque e finiranno con il colonizzare la vostra base centrale.

I robot sono vivi con il suono della musica

Il suono è il protagonista invisibile di Astro Bot, un elemento che si fa notare non solo attraverso il raffinato lavoro di sound design eseguito sugli effetti sonori, ma anche e soprattutto per l’abile selezione delle tracce musicali, le quali sono state composte e gestite dal talentuoso Kenneth Young. Le azioni del giocatore influenzano direttamente la natura stessa dei livelli, un mutamento che viene spesso riflesso in maniera marcata anche dalla colonna sonora, la quale dev’essere per necessità di cose ben integrata con il resto dell’esperienza. C’è qualcosa di profondamente appagante nel vedere come ogni movimento e decisione presa nel gioco modifichi il mondo circostante, creando un’armonia unica tra azione e musica. Tuttavia, proprio questa colonna sonora finisce con l’evocare un inevitabile confronto.

Kenneth Young, ormai collaboratore di lungo corso del Team Asobi, porta con sé un’eredità significativa: le sue radici sono ancorate nell’audio designer della celebre serie LittleBigPlanet. Questo retaggio sonoro diventa un ponte naturale che unisce Astro Bot e i giochi che hanno come protagonisti i Sackboy, evidenziando una serie di affinità stilistiche che non possono passare inosservate. Tuttavia, un simile confronto non gioca a favore del titolo Sony. La saga di LittleBigPlanet si è sempre distinta per l’attenzione maniacale dedicata alla selezione delle musiche e all’integrazione dei suoni nel tessuto del level design, dimostrando una coerenza e una costanza che in Astro Bot appaiono meno pronunciate. Mentre LittleBigPlanet riesce a intrecciare ogni nota musicale con l’architettura dei livelli in modo quasi simbiotico, Astro Bot fatica a raggiungere lo stesso livello di maestria, risultando talvolta in un’esperienza sonora meno coesa e coinvolgente.

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Ogni livello presenta uno scenario a sé, ma tutti i livelli tendono a essere interessanti alla vista.

Astro Bot: chi si ferma, arrugginisce!

Fino ad ora, abbiamo discusso diversi aspetti secondari di Astro Bot, ma non abbiamo ancora affrontato un elemento cruciale: il gameplay. Ciò è dovuto al fatto che, paradossalmente, la giocabilità è il fattore meno interessante dell’intero titolo e, anzi, è il fattore che meglio evidenzia le criticità creative dell’intera esperienza. Non fraintendeteci: le meccaniche di gioco funzionano e, in gran parte, lo fanno anche bene; tuttavia, non apportano nulla di nuovo rispetto a quanto già visto in innumerevoli altri platformer prodotti e distribuiti dalla concorrenza. Per cercare di smuovere un po’ le cose, gli sviluppatori hanno introdotto nei livelli qualche power-up caratteristico e grattacapi in grado di usare le peculiarità specifiche del controller DualSense. Tuttavia queste inclusioni sono sporadiche e situazionali, più delle parentesi temporanee che degli elementi di gioco messi effettivamente a disposizione degli utenti.

Se queste osservazioni vi suonano familiari, è perché durante l’intera recensione ci è toccato reiterare che tutti i pregi più marcati di Astro Bot vengono sfruttati in maniera tanto incostante da essere frustrante. Che si parli delle meccaniche ludiche imitanti Pikmin, della gestione della musica nel level design, dei potenziamenti o dell’uso delle funzionalità del controller, emerge con regolarità l’impressione che il gioco abbia sacrificato queste caratteristiche più innovative, tipiche del suo retaggio “tech demo”, in favore di un’esperienza maggiormente generica e priva di mordente. Almeno per quanto concerne il frangente della giocabilità in senso puro.

L’impiegare trovate tecniche specifiche alla PlayStation 5 rappresenta forse un trucchetto da bagatto, ma è anche quel valore aggiunto che ha reso la saga di Astro unica e irripetibile. Tuttavia, smussare queste peculiarità costringe il prodotto a confrontarsi in un mercato altamente competitivo, mettendone in evidenza le carenze. Oltre alle meccaniche di gioco poco ispirate, colpisce anche la mancanza di opzioni pensate per l’inclusività di giocatori ipovedenti e ipoudenti, senza contare la totale assenza di qualsiasi modalità multiplayer. In tal senso, Astro Bot sarebbe il gioco perfetto da condividere con parenti e amici, soprattutto in co-op locale; il fatto che si limiti al solo single player rappresenta un’enorme occasione mancata, quasi un peccato capitale.

[Modifica del 05/09/2024: nel testo originale abbiamo riportato la “nascita” di Astro in The Playroom VR, mentre il robottino aveva già avuto una parte nel AR Bots di The Playroom, uscito tre anni prima.]


Astro Bot è stato concepito con una dedizione e una passione evidenti, frutto di un lavoro minuzioso che traspare in ogni dettaglio. La sua natura fanservice, ben presente e palpabile, è gestita con un equilibrio raffinato e un affetto sincero per il mondo PlayStation, dimostrando una comprensione profonda delle peculiarità tecniche della PlayStation 5. Tuttavia, nonostante queste qualità, il gioco mostra una certa reticenza nell’osare e nell’innovare. Sebbene offra spunti interessanti e promettenti, non li sviluppa appieno, preferendo concentrarsi su un’esperienza che, sebbene piacevole e ben confezionata, tende a rimanere su binari relativamente sicuri e prevedibili. Questo approccio finisce per rendere l’esperienza di gioco più attenta all’estetica e alla forma piuttosto che alla sostanza, privandola di quel guizzo creativo che avrebbe potuto elevare il titolo a un livello superiore.