Dustborn

Dustborn Recensione V mensile

Il fatto che Quantic Dream abbia, da qualche tempo, un’etichetta tramite la quale concorre a produrre titoli semi-indie di qualità è un’ottima cosa: finora nessun gioco uscito sotto l’egida di Spotlight ha davvero lasciato il segno, ma si intravedono grosse possibilità e notevoli talenti, tra cui quelli di Red Thread Games, che propone ora il qui recensito Dustborn, opera sicuramente nelle corde dello studio di David Cage. Si tratta infatti di un’avventura narrativa con un interessante background e temi importanti di cui parlare, in cui il giocatore è chiamato a influire spesso sull’andazzo generale della storia e le sue conseguenze sui protagonisti.

Uno dei mille momenti in cui dovrete prendere una decisione critica.

Un’America divisa… e divisiva

È notorio che per noi di V non sia importante solo come si presenti un gioco e quanto sia divertente (che chiaramente sono i primi elementi di valutazione spicciola), ma anche il valore intrinseco di quel che racconta, come lo faccia, quanto osi, quanto voglia restituire a un giocatore in termini di emozioni e significato in cambio delle ore spese a domarlo. Da questo punto di vista, Dustborn è un diamante grezzo: una IP originale che narra di un gruppo di underdog che si riunisce sotto la bandiera vagamente anarchica di un gruppo punk rock per compiere una rischiosa missione sotto copertura per conto di una frangia ribelle che promette la libertà tanto anelata e così distante dalla vita quotidiana negli Stati Divisi d’America. Il contesto ucronico, secondo il quale un evento diciamo “positivo” come il fallimento dell’assassinio di JF Kennedy porterà infine alla disgregazione degli USA e allo stabilirsi di regimi simili a quelli combattuti per decenni, è inquietante e tristemente realistico, e comunque non troppo distante, nei risultati, da quello che potrebbe essere davvero il futuro della prima potenza al mondo. In questo contesto, i nostri quattro reietti (emarginati sia per motivi identitari sia per essere detentori di un potere temuto e stigmatizzato manifestatosi in una piccola percentuale della popolazione vent’anni prima) vivono e lottano per trovare il loro posto nel mondo, e la quantità di linee di dialogo loro dedicate è straordinario e profondo, considerando che ognuna di esse contribuisce al finale specifico di ogni membro del party.

Ma se nelle piccole cose si è lavorato alla grande, è il contesto generale che si perde un po’ per strada. Ogni personaggio ha diversi finali possibili, ma nonostante scelte morali e svolte narrative, la vicenda in sé ha comunque un binario da seguire. Dunque, se sentiamo il peso nelle relazioni interpersonali di ogni singola parola detta, le decisioni prese in quanto avventurieri hanno un’importanza invece decisamente relativa, andando a modificare situazioni e intermezzi ma non inizio e fine di ogni capitolo. Senza contare che alcune derive narrative suonano forzate, poco coerenti o sensate, e che l’albero degli avvenimenti non è visibile e non si può “tornare indietro” o ripartire da un punto specifico per provare tutti gli snodi di trama, come ad esempio in Detroit: Become Human.

Dustborn
Il minigioco musicale è semplice, ma appagante.

Un diamante grezzo

Grandi idee ed esecuzione non sempre ottimale, insomma: del resto, i dialoghi stessi tendono a volte ad essere soverchianti, e se non fosse per le situazioni diversive, finirebbero anche per stancare, calcolando inoltre che i protagonisti, spesso e volentieri, non brillano per simpatia, volendo rappresentare persone “vere” con problematiche fisiche e psichiche e sensibilità variegate, ma a volte poco accomodanti o piacevoli.

Venendo al gameplay di tutto ciò che non è linea di dialogo, basilarmente si tratta di tre cose: risolvere enigmi ambientali piuttosto semplici (ma che prevedono spesso anche soluzioni differenti), esibirsi come musicisti in un simil-guitar hero piacevole ma dalle meccaniche assai basilari e, infine, menare le mani contro frotte di avversari quando non si possono risolvere le cose con il potere della parola. Che, di per sé, fa molto riflettere, in un gioco in cui ne viene ricordato ogni tre per due l’importanza, ma non importa: è lodevole l’idea di non lasciare a semplici QTE le situazioni di pericolo e imbastire invece sezioni da Action RPG, purtroppo però all’atto pratico la giocabilità è minata dall’estrema lentezza dell’azione e dalla effettiva mancanza di abilità necessarie da parte del giocatore, che siano esse di destrezza o di tattica.

A livello tecnico, come spesso capita con questi giochi in cel-shading, le immagini fisse e i filmati risultano molto belli, graziati inoltre da una certa ricercatezza artistica volta a ricalcare la miglior scena fumettistica americana alternativa; purtroppo, in movimento non sempre risultato tutto fluido, e la quantità di elementi a schermo, combinati con il flusso costante di icone, testi e sottotitoli, tende a risultare a tratti confusionaria. Un plauso va, invece, al contesto sonoro, denso di musiche ad hoc, ottime canzoni, suoni d’atmosfera e un ispiratissimo doppiaggio che presenta letteralmente ore e ore di dialoghi.

I combattimenti sono scenografici e ricchi di fumetti camp in sovrimpressione.

Conclusioni

Dustborn è un titolo significativo, a cui però, nonostante il supporto di Quantic Dream, manca la qualità dell’offerta ludica e una generale pulizia, perché a volte, come si suol dire, “less is more”; troppe istanze narrative, troppi spunti di storia e di gameplay che finiscono per non essere raffinati a dovere e così inquinano i tanti ottimi elementi.

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