Piazza Rossa

Piazza Rossa – V mensile: Teoria e organizzazione

Abbiamo tutti, ormai, il parente o il parente del parente che, durante la tavolata di Natale, Pasqua, Ferragosto, decide sia arrivato il momento di parlare dei ragazzini di oggi, di quanto i loro figli o nipoti siano così diversi da loro e di quanto tempo passino davanti ai videogiochi, divertendosi nel mentre a citare alcuni, storpiando i loro nomi volontariamente e in maniera compiaciuta, come se in questo modo avessero ristabilito la loro superiorità sul mondo che li circonda e schernito i “nerd” di tutto il pianeta. Se inizialmente il tema, sollevato soprattutto dai “boomer”, era il puro e becero scontro generazionale, “vita sociale da strada/vita asociale da casa”, oggi si fa sempre più prepotente la demonizzazione del videogioco, soprattutto da parte dei nuovi genitori, in quanto droga per i loro bambini. Mentre i primi, i “boomer”, potevano/possono essere confutati mettendo cinque parole in fila più o meno articolate, dimostrando così nella maggior parte dei casi la loro totale inadeguatezza e arretratezza culturale rispetto alle nuove generazioni, i secondi hanno certamente bisogno di una risposta più approfondita, anche perché si tratta della risposta alla domanda che occuperà parte del dibattito politico e culturale dei prossimi anni: i videogiochi sono una droga?

Iniziamo anzitutto col significato “clinico” di droga: sostanza psicoattiva che altera le percezioni, le emozioni e lo stato di coscienza. Andando oltre e volendo quindi teorizzare un significato “sociale” di droga, potremmo sicuramente dire che un oggetto, un’attività, una sostanza sono droga quando vengono usati/fatti/ingeriti in maniera incontrollata, costante, goduriosa ed estraniante. Il tema della “goduria”, del piacere ricavato da dato oggetto/attività è un parametro che, pur sembrando banale, diventa di fondamentale importanza per distinguere una droga da qualsiasi altra attività che siamo costretti a svolgere senza controllo e con costanza come, ad esempio, il lavoro. Dopo queste rapide distinzioni, possiamo già dare una prima risposta alla domanda. Il videogioco è una droga? Farmacologicamente o, se vogliamo, nel senso classico del termine, no. Socialmente, il videogioco può diventare una droga ed essere accomunato a un consumo spasmodico e alienante di cannabis? Sì, può certamente diventarlo.

Facciamo allora un passo in avanti e prendiamo in considerazione il videogioco nella sua declinazione peggiore, quella in cui si trasforma in droga per il suo utilizzatore. La soluzione quale sarebbe, bandire i videogiochi? Un uso scorretto, drogante e alienante di qualsiasi sostanza da parte di alcuni è sufficiente per rendere tale sostanza/attività illegale? Per via del crescente tasso di obesità nel mondo rendiamo illegali gli zuccheri? Le risposte a queste domande retoriche sono abbastanza chiare. Come deve essere chiaro, nell’educazione dei vostri e dei nostri figli, che di fronte all’abuso di una sostanza o di qualsiasi altra attività che abbia come fine l’estraniarsi, l’allontanarsi dalla realtà, per risolvere veramente il problema dobbiamo anzitutto domandarci: quale è la realtà che lo circonda e perché vuole scapparne? Molti di noi, infatti, hanno certamente investito gli anni migliori della loro giovinezza di fronte a un videogioco sia perché innamorati di ciò che rappresentano (e infatti siamo ancora qui a parlarne), sia perché, forse, il mondo che ci circondava era evidentemente manchevole e sordo alle nostre necessità, alle nostre peculiarità.

Leggilo gratis in versione impaginata e sfogliabile sul numero 5 di V – il mensile di critica videoludica