Il Giappone è contro i licenziamenti di massa?

In una qualunque una discussione sui licenziamenti di massa videoludici, si giunge ad una certezza: il Giappone non ne fa. Da questo punto di vista, i dati sono inconfutabili e sono rafforzati dalle innumerevoli dichiarazioni contro questa prassi da parte di moltissimi CEO e director di studi nipponici. Come non dimenticare le parole di Satoru Iwata di Nintendo? Anche l’ultima intervista di Hidetaka Miyazaki su PC Gamer ha ribadito il concetto con una certa veemenza: “Parlando a me stesso e a questa azienda, voglio dire che questo non è qualcosa che augurerei allo staff di FromSoftware nemmeno tra un milione di anni. Sono abbastanza sicuro che la nostra società madre Kadokawa lo capisca e condivida questo punto di vista”

Effettivamente, il quadro complessivo dei licenziamenti nel 2024 vede una ulteriore riconferma di questa differenza tra Oriente e un Occidente che ha suo carico 11.540 posti di lavoro persi e altrettanti studi di sviluppo chiusi. Ma perché esiste questa dicotomia? Moltissimi fanno ricondurre questo stato delle cose al senso di appartenenza aziendale, alle diverse scelte progettuali o allo spiccato senso dell’onore delle imprese giapponesi ma qualcosa non quadra: il denaro e i bilanci, seppur scritti in hiragana, seguono le stesse regole in tutto il mondo. Cosa c’è di diverso?

La risposta è molto semplice: regole differenti.

Hidetaka Miyazaki

L’at will employement in USA

Negli Stati Uniti, un datore di lavoro può liberamente licenziare un dipendente grazie al principio dell’ “at will employement”. In buona sostanza, la legge statunitense considera ingiusto che un lavoratore possa lasciare un lavoro come e quando vuole e che il titolare non possa fare altrettanto a parti inverse. Le limitazioni a questo principio sono poche e fondamentalmente rientrano nelle casistiche che riguardano le fattispecie discriminatore come quelle basate su sesso, religione o handicap ad esempio. La situazione è leggermente diversa per gli impiegati nel settore pubblico dove vige l’obbligo della “giusta causa” ma, nel privato, si naviga sostanzialmente sulla scorta dell’at will employement ovvero per il 74% dei lavoratori statunitensi.

E’ importante sottolineare che sebbene molto diffuso, questo principio è da sempre al centro di fortissime critiche dato che non riconosce la diseguaglianza di potere contrattuale tra datori e lavoratori dove quest’ultimi hanno meno alternative nel far valere le proprie ragioni. Ad esempio, l’obbligo di ritornare in ufficio post COVID  è diventato un astuto strumento di taglio del personale (vedi Blizzard) o l’uso massiccio dei mandatory arbitration connessi all’ assunzione che impediscono di rivolgersi ad un giudice per risolvere le controversie.

Blizzard

Welcome to California

Ed è proprio la California ad essere uno degli Stati che maggiormente applica e difende questo principio sia fuori che dentro i tribunali. In particolare, il ricorso intensivo a questo regime giuslavoristico è una delle basi con cui si è fondato il successo della Silicon Valley che poteva compensare questo via vai di lavoratori grazie alla facilità di ritrovare lavoro presso altre aziende, in un contesto di esplosione del settore. Una circostanza che non rispecchia più l’attuale situazione e mostra, in tutta la sua crudezza, le conseguenze di un mercato del lavoro regolato in favore delle imprese che hanno tutto l’interesse a ridurre i costi con ogni mezzo a disposizione. Insomma l’opinione che vuole gli Occidentali interessati solo ai soldi e insensibili alle richieste e alle esigenze dei propri lavoratori, si alimenta e conferma con estrema facilità.

Ciononostante, il vero motivo dietro questa profonda contrapposizione tra Occidente e Giappone resta ignota anche a coloro che si definiscono esperti del settore videoludico: il diritto del lavoro nipponico rende praticamente impossibile il ricorso ai licenziamenti di massa. 

La Silicon Valley, culla del tecnologico statunitense

 Dottrina del licenziamento abusivo in Giappone

La verità è che, in Giappone, esiste la “dottrina del licenziamento abusivo” che considera nulli  tutti i licenziamenti  privi di motivazioni oggettivamente ragionevoli e non considerati congrui sotto il profilo sociale generale. Anche un normalissimo licenziamento rischia di essere annullato se considerato irragionevole sia sul profilo sociale sia in base al contesto in cui matura.

La conseguenza diretta di questa impostazione è che le aziende devono dimostrare di aver fatto l’impossibile per evitare di mandare a casa centinaia di dipendenti e da qui trovano spiegazione, ad esempio, i tagli degli stipendi dirigenziali o la riduzione delle ore di straordinario. L’elenco delle azioni da intraprendere per dimostrare la buona fede delle compagnie è lunghissimo e particolarmente rigido e comprende cose come il trasferimento dei dipendenti ad altre consociate, il non rinnovo dei contratti a tempo determinato, la sospensione delle attività più dispendiose e l’eventuale offerta di dimissioni volontarie con adeguata compensazione. Insomma, un gran numero di rogne che potrebbero comunque non soddisfare le richieste dei giudici e rendere nulli tutti i licenziamenti.

Alla luce di ciò, il mito dell’industria videoludica nipponica che fa di tutto per salvare i propri lavoratori, assume una connotazione diversa da quanto fino ad oggi raccontato. Anche perché se da una parte si evitano i lay-off di massa, il mondo del lavoro giapponese ci offre un orizzonte dove il mobbing, bassi salari e super lavoro sono all’ordine del giorno.

Il Giappone non riposa mai.

Se si guardano i dati dell’OCSE  si scopre che in Italia (1734 ore) si lavora più che in Giappone (1611 ore) quindi se ne dovrebbe dedurre che il mito del giapponese stakanovista non ha senso di esistere. Però, quello che i dati non rilevano è lo straordinario che i lavoratori del Sol Levante sono socialmente obbligati a fare e che non vengono registrati e spesso neanche pagati. Anche quando si consultano i dati ufficiali, le percentuali non sono del tutto precise poiché gli intervistati tendono a non dire la verità nonostante l’anonimato. Per dare qualche idea del fenomeno, si stima che l’orario giornaliero sia di 10 ore e che l’ideale preteso dai datori di lavoro sia di 12 ore.

Una realtà drammatica che ha costretto il Ministero della Salute a pubblicare delle guide ufficiali sui pericoli del superlavoro e mettere in guardia i cittadini sul famigerato karoshi, la morte da super lavoro, e il karojisatsu, il suicidio da super lavoro. In pratica, il Governo  non è in grado di sapere quanto davvero ammonti lo straordinario e deve ripiegare su misure di prevenzione e informazione, data l’inefficacia delle leggi che regolano gli orari di lavoro. A questo dobbiamo aggiungere l’esistenza delle Burakku kigyo, aziende note per calpestare qualunque tipo di diritto del lavoratore e che arrivano a far indebitare il dipendente grazie ad un sistema di sanzioni economiche interno, teso a punire ritardi o errori sul lavoro.

Nuove frontiere dell’abuso

Solo nel 2020, il Giappone ha reso effettiva la legge contro il pawahara ovvero l’abuso di potere sui luoghi di lavoro che fino ad allora non era previsto dal codice. Da questo punto di vista, il Sol Levante offre una vasta gamma di soprusi che vanno dalle violenze fisiche alla violazione della privacy. Una delle più note al pubblico videoludico è oidashibeya che consiste nel bandire dai luoghi di lavoro il lavoratore che non si gradisce più. Ve li ricordate gli ultimi mesi di Kojima a Konami? Ecco, ci siamo capiti.

Considerata una versione crudele del madogiwazoku, si realizza nell’assegnare al dipendente indesiderato una stanza possibilmente senza finestre, senza alcun compito da svolgere e senza alcuna possibilità di interagire con i colleghi o clienti. Se per qualcuno può apparire una condizione invidiabile, in Giappone, viene considerata una forma di ostracismo particolarmente brutale e umiliante.  Ma l’elenco dei comportamenti scorretti è molto vasto e finalmente puniti come l’essere presi a calci, l’essere strattonati per i capelli o per il bavero, spegnere le sigarette sul corpo dei sottoposti o essere costretti a fare la spesa per i colleghi.

Ma vale per tutti?

La verità che sfugge ai più è che questa dottrina del licenziamento abusivo vale solo ed esclusivamente per il territorio giapponese, tant’è che dove è consentito licenziare con più facilità, i giapponesi provvedono ad allinearsi all’andazzo occidentale: infatti, mentre Satoru Iwata di Nintendo tagliava gli stipendi dirigenziali in Giappone e dichiarava che “le persone che hanno paura di perdere il lavoro hanno paura di fare cose buone”, 320 dipendenti della sede europea dicevano addio al proprio posto di lavoro. Anche Square Enix non ha avuto alcun tipo di esitazione quando ha “ristrutturato” i rami occidentali della propria azienda nel maggio di quest’anno.

Insomma, la narrazione di un Giappone che si preoccupa del benessere dei propri dipendenti più di quanto non faccia l’Occidente è frutto una scarsa conoscenza della realtà nipponica che viene sfruttata da aziende e CEO a proprio vantaggio in termini di pubbliche relazioni. Anche l’ondata di aumenti salariali in compagnie come Bandai o Nintendo non sono frutto di una inaspettata benevolenza ma ha ben altre motivazioni che nulla c’entrano con il riconoscere un giusto stipendio ai propri dipendenti. Anche in Giappone non è oro tutto quello che luccica.