Quando si pensa all’immaginario pop contemporaneo pochi topoi sono conosciuti e riconosciuti come quello del viaggio coast to coast, raccontato in ogni chiave al cinema, in letteratura e, naturalmente, nel videogioco. Alla lunga lista di opere narrative dedicate al viaggio attraverso gli States si aggiunge Dustborn, realizzato dalla software house norvegese Red Thread Games e in via di pubblicazione da parte di Quantic Dream, che lo distribuirà sotto l’egida dell’etichetta Spotlight dedicata a realtà indipendenti.
L’anno è il 2030, e gli Stati Divisi d’America vivono sotto un governo fascistoide in cui la Justice amministra la legge, occupandosi di sedare cittadini dissidenti e libero pensiero. Una vera e propria distopia dovuta a due avvenimenti specifici: in primis il fallimento dell’attentato al Presidente Kennedy, la cui vittima è stata invece la moglie Jacqueline; e, in secondo luogo, una non meglio specificata trasmissione mandata in onda dal governo nel 2000.
In questo scenario si muovono i Dustborn del titolo, un improbabile gruppo di reietti fuggito dalla città-stato di Purity a Pacifica con una preziosa chiave USB da consegnare in Canada, Nova Scotia, allo sconosciuto committente del colpo in cambio di una cifra in grado di cambiare la vita a tutti loro. Per evitare sospetti, i protagonisti si muoveranno per le strade d’America nei panni di un gruppo punk in tour, in un viaggio di oltre 4000 chilometri tra diner abbandonati, autogrill, città e le variegate comunità che popolano il paese.
È assolutamente evidente che il lavoro di world building di Dustborn sia di livello altissimo, con un contesto studiato nei minimi dettagli e tanta, tantissima lore da approfondire nel corso dell’avventura. Un approccio che non stupisce, conoscendo la produzione di Red Thread Games e soprattutto del direttore creativo Ragnar Tørnquist, autore della saga e del complesso mondo di Dreamfall e di The Secret World, il primo esperimento di MMORPG narrativo mai prodotto.
Un gruppo di reietti attraverso il cuore dell’America
Come per ogni band che si rispetti, il valore di Dustborn andrà misurato sulla base dell’alchimia tra i suoi protagonisti. A capo dell’operazione troviamo Pax, ex detenuta e artista della truffa: una donna di circa trent’anni di ritorno negli States e nella comunità in cui è cresciuta dopo un’assenza di 16 anni. Nel corso della demo pubblicata da Quantic Dream avremo modo di approfondire i motivi del suo allontanamento e conoscere Ziggy, sua sorella minore e inventrice “di strada”, che si unirà al tour bus e ai suoi altri occupanti: Theo, figura paterna per il gruppo, un uomo maturo dalla profonda empatia e dalla capacità di gestire situazioni complicate con tranquillità; Sai, migliore amica di Pax e aspirante artista; e infine Noam, ex compagn* di Pax, di genere non binario con una peculiare ossessione per Marilyn Monroe (che oltre a essere ancora viva e in salute, nell’ucronia dell’opera è stata la seconda moglie di J.F.K.).
Dustborn: mostri e normali
Pax e compagni sono degli “Anomali”, esseri umani dotati di particolari poteri, che, come già per gli X-Men Marvel, li rendono invisi alla società e soprattutto oggetto delle persecuzioni governative. Le peculiarità del cast vanno dalle più classiche, come la superforza di Sai, la tecnomanzia di Theo o la capacità di Ziggy eccitare le proprie molecole diventando super veloce o attraversando i muri; fino alle più inusuali, come la manipolazione empatica di Noam o la vox di Pax. La donna ha infatti il potere di influenzare chi ha intorno attraverso l’uso della voce, che le rende possibile persuadere o costringere all’azione tanto gli avversari quanto i membri del gruppo.
A caratterizzare i personaggi non sono però solo i poteri o la rete di relazioni, ma anche i rispettivi vissuti in quanto soggetti marginali, cioè persone distanti rispetto al centro del sistema sociale in essere; distanti, in una parola, da quella che è considerata “la norma”. Pax è una donna di colore in stato di gravidanza, Theo un uomo di origine ispanica, Ziggy è una persona neurodivergente con ADHD e conseguenti disturbi d’ansia, Noam utilizza pronomi gender neutral, Isa è una donna musulmana ed è affetta da vitiligine… Insomma, per un motivo o un altro, ognuno dei membri del gruppo ha caratteristiche che lo rendono visibilmente diverso rispetto ai canoni imposti dal governo degli Stati Divisi d’America.
La decisione, purtroppo prevedibilmente, non ha mancato di suscitare polemiche da parte di alcune fasce di pubblico, in particolare tra chi vede ovunque lo spettro del “wokeism”, ossia l’inesistente religione sociale che costringerebbe i creatori di prodotti culturali a inserire personaggi e situazioni inclusive in maniera forzata. Di fronte a un contesto narrativo come quello di Dustborn, tuttavia, è evidente che tali accuse siano piuttosto deboli, e che un gruppo di donne e uomini bianchi, neurotipici, eterosessuali e cisgender in fuga da una società di loro pari avrebbe avuto un impatto decisamente minore. Un concetto esemplificato dalle parole dello stesso Tørnquist:
“Dustborn è un gioco che parla di un gruppo particolare di amici: immigrati, esuli, emarginati, reietti, rifugiati. Parla di persone che sono in disparte rispetto alla società e che cercano una via d’uscita verso una vita migliore e un futuro gratificante, e volevamo che questo gruppo di persone non rappresentasse solamente la diversità presente negli Stati Uniti, ma anche quella presente nel nostro pubblico”.
Diversità nella trama e diversità nelle meccaniche
L’eterogeneità è anche alla base del gameplay che, pur rimanendo fortemente improntato alla narrativa, non manca di esplorare un mix di generi differenti in contrappunto alle variegate situazioni che il viaggio metterà di fronte ai protagonisti. La demo attualmente pubblicata già riesce a dare un’idea di tale impostazione, presentando tre mini-episodi che fanno parte delle prime due ore del gioco. Nel primo ci troveremo di fronte a una classica situazione da punta-e-clicca, in cui dovremo sfruttare i poteri dei personaggi per riuscire a salvare il meccanico del nostro tour bus da una spiacevole situazione; si passerà poi a un improvvisato concerto di strada che servirà a convincere gli agenti della forza di polizia Justice delle nostre credenziali come band, in una sezione gestita esattamente come un rhythm game; infine ci troveremo coinvolti in uno scontro in stile action, durante il quale dovremo usare Pete, una mazza da baseball ultra tecnologica, combinando potenti attacchi fisici all’uso dei poteri di Pax per avere la meglio.
Le tre sezioni, e le rispettive modalità di gioco, appaiono ovviamente piuttosto disgiunte, dando l’idea di compartimenti stagni di gameplay proposti in maniera poco coerente nel quadro generale, ma è ancora presto per dare un giudizio, soprattutto considerata la modalità episodica della demo. I momenti di gioco sono incorniciati da sezioni narrative durante le quali avremo la possibilità di interagire con oggetti e parlando con i personaggi attraverso un sistema di dialoghi a scelta multipla che avranno un impatto sulle relazioni e di conseguenza sullo svolgimento della trama. Anche in questo caso, la prima impressione è che i dialoghi siano un tantino sopra le righe con un vago retrogusto di stereotipo, ma la sospensione del giudizio rimane d’obbligo finchè non sarà possibile godere del prodotto finito.
Dustborn: uno spettacolo per gli occhi
A fronte delle incognite e dei giustificati dubbi, esiste un elemento in Dustborn che è già possibile promuovere a pieni voti: l’aspetto visivo, opera dell’art director di Red Thread Games Christoffer Grav. Dustborn omaggia in maniera inequivocabile il mondo dei comics americani, e lo fa centrandone in pieno stile e spirito, in un gioco di omaggi di cui un cel shading da manuale e l’uso di colori super pop, vignette e onomatopee sono solo la punta dell’iceberg.
È infatti impossibile non riconoscere nel lavoro di Grav i richiami non solo a produzioni più mainstream, come appunto i succitati X-Men; ma soprattutto ad alcune produzioni più di nicchia, seppur fondamentali, come quelle nate dalla linea Vertigo della DC comics, che ha rivoluzionato il mondo delle nuvole parlanti tra gli anni ’80 e ’90 proponendo situazioni e racconti distanti dalle classiche fantasie supereroistiche e profondamente calati nel contemporaneo sociale e politico. Nel lavoro di visual di Dustborn è possibile rivedere l’epopea americana del Prez di Ed Brubacker, la tecnologia distopica del Transmetropolitan di Warren Ellis e l’approccio punk dei lavori di Garth Ennis, senza dimenticare la strizzata d’occhio a Tank Girl, opera di gioventù dello stesso Jamie Hewlett, autore del design dei Gorillaz. Il tutto rivisto con una chiave che sostituisce il nichilismo delle opere originali con una visione maggiormente vicina ai tempi attuali, che guarda al futuro con speranza e alla ribellione come mezzo di autorealizzazione.
Evidente è anche l’influenza di alcuni titoli fondamentali nello sviluppo del videogioco narrativo, in primis Life is Strange, con cui Dustborn sembra dimostrare un’affinità nelle scelte di colori e nell’importanza delle relazioni interpersonali, e poi a seguire le avventure a episodi realizzate su licenza da Telltale, e nello specifico The Walking Dead e Tales from the Borderlands. Con così tanti elementi e temi, uniti a una narrazione profondamente radicata nell’analisi del presente sociale e politico, possiamo concludere che Dustborn sia un gioco da tenere d’occhio. Un prodotto con forti ambizioni e una discreta dose di coraggio, che per ora ha dimostrato di essere sulla strada giusta, seppure con diverse perplessità. Per scoprire se la scommessa di Quantic Dream sull’opera di Red Thread Games sarà vincente dovremo aspettare il 20 agosto, la data perfetta per imbarcarsi in un viaggio che speriamo essere indimenticabile.
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