Siamo uomini o caporali? Così direbbe il grande Totò, ma qui più che ai caporali e agli uomini ci troviamo davanti ai generali, addirittura anche ai Capi di Stato Maggiore autoproclamatosi. Il mondo del videogioco ha un problema con nome e cognome: la mancanza di professionismo. La mancanza di professionismo è diventata ormai strutturale e non riguarda soltanto il giornalismo videoludico, dove è facile fare un immediato parallelo, ma anche il mondo della progettazione e dello sviluppo. Troppi impiegati, infatti, musicisti, grafici, storyteller, si trovano prestati a un mondo di cui non conoscono nulla o, peggio, di cui hanno una visione distorta, sia creativa che commerciale. Dopo questa premessa che vi avrà annoiato abbastanza, vi spiego il focus del discorso. Quando il generalismo entra a piene mani nel mondo della creatività, i guai infilano il piede nella porta e quel media è spacciato. Qualcuno potrebbe chiedersi, a questo punto, come abbia fatto il cinema a sopravvivere, come abbiano fatto la televisione o la radio, e la risposta è semplice: sono cose che costano e costano tanto. Ora, potrebbe sembrarvi azzardato fare un parallelo tra lo sviluppo amatoriale o semi-amatoriale di un videogioco e la produzione di un cortometraggio, il primo dovrebbe essere più complesso e molto più costoso, e invece non è così. Perché il cinema, con più di cento anni di storia in valigia, prima di finire nelle mani di nerd con il cellulare, ha avuto tutto il tempo di alzare il livello, scrivere testi immortali (“Teoria generale del montaggio” vi dice nulla?), mostrare al globo terracqueo intero quanto sia complesso ed elitario il suo mondo. Nel nostro, invece, qualcosa è andato storto. Perché se fai videogiochi e non sei Lord British (al secolo Richard Garriott) il tuo successo si vede poco o non si vede per niente. Chi di voi sa se Katsuhiro Harada sia sposato oppure in che casa abiti Jade Raymond? Immagino nessuno, per quanto, lo ammetto, sono cose di poco o nessun interesse.
C’era da sviluppare un pubblico di intenditori e hanno, abbiamo (quasi) fallito. È vero, nessuno pensa, oggi, che i videogiochi siano cose da bambini, si è spenta anche la polemica riguardo alla violenza, qualche punto sul tabellone, in qualche modo e non per merito delle Major, ci sta. Peccato che al contrario i punti subiti siano parecchi di più. La teoria che il videogioco non passerà alle prossime generazioni inizia ad avere contorni definiti, il tentativo di trasformarlo in una sorta di vita parallela basata sul sogno è miseramente fallita. Difficile non vedere quanto somiglino alla realtà questi ultimi titoli di grido usciti: noiosi come la realtà, banali come la realtà, vasti e inesplorabili come la realtà, vuoti come la realtà. Eppure, ritirarsi sull’Aventino ancora una volta potrebbe essere utile per restituire dignità a un passatempo divenuto arte e poi di nuovo passatempo con almeno l’intenzione di capire quando la parabola discendente sia cominciata. Ci deve essere stato un punto, un attimo in cui eravamo tutti distratti, e in cui il trend ha fatto quella curva tipica dell’immersione delle balene; un momento in cui qualcuno ha preso in mano i conti e ha pensato “ma vale la pena spendere tutti questi soldi per un tempo così lungo tanto da far uscire già vecchi questi prodotti?”. Forse c’è stato, forse no, domani mi sveglierò e al negozio ci sarà una scatola di cartone con dentro Populous III, 69.900 lire, ci giocherò tutta l’assolata estate, quella che dura tre mesi, quella che fa ombre corte e nere. Tra un poco devo alzarmi mi aspettano quasi tre ore di bus per andare a lavorare, sul monitor lasciato acceso c’è una partita in pausa di Ogre Battle, nelle orecchie Mother Russia degli Iron Maiden, in testa così tanta incertezza, in bocca una voglia infinita di sapere come andrà a finire. Intanto hanno smesso di produrre lo Zilog Z80; dopo 48 anni.
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