L'Ultima Parola

L’Ultima Parola – V mensile: Come uscire dalla crisi

Il progetto V prende il largo in un momento particolarmente delicato per l’industria del videogioco: nel giro di pochi decenni, i modelli di business responsabili dell’incontrollata crescita dei costi di gestazione del prodotto hanno finito infatti per generare un famelico Leviatano che, nel vano tentativo di soddisfare esigenze sempre più irrealistiche, continua a cannibalizzarsi.

A farne le spese maggiori sono stati, almeno finora, gli sviluppatori meno “fortunati” o le migliaia di dipendenti finiti sotto la cesoia dell’ottimizzazione dei costi, ma è palese che, ben presto, anche i videogiocatori saranno chiamati a fare i conti con le conseguenze della crisi. L’allarme non proviene, stavolta, dalle solite Cassandre della sfera editoriale e nemmeno da azionisti sempre più perplessi di fronte alle performance registrate in borsa dai soliti colossi, bensì da chi i videogame li realizza.

I numeri forniti a suffragio di un impellente cambio di rotta sono in effetti inquietanti e ci parlano di un settore che ha smesso di crescere in modo omogeneo, in cui i costi di produzione tendono a superare in modo quasi sistematico i ricavi e le aziende sono spesso costrette a contrarre debito persino in seguito a iniziative commerciali di successo. Di fronte a uno scenario simile, la domanda che si stanno ponendo un po’ tutti gli addetti ai lavori è di una semplicità disarmante: come se ne esce?

Al momento, non ci sono risposte nette, ma solo ipotesi più o meno praticabili. Alcuni ritengono che i tempi siano maturi per avviare una politica di austerity volta a ridimensionare gli investimenti e pianificare una produzione tesa a favorire progetti dal budget più contenuto, così da incrementare i margini di ricavo. In termini pratici, si tratterebbe di staccare la spina a molti AAA in via di sviluppo e mettere seriamente in discussione l’intero sistema dei live service: sebbene si ritenga che detta strategia possa contribuire a riportare l’assetto economico dell’industria entro parametri di sostenibilità accettabili, i grandi marchi guardano tuttavia ad essa con diffidenza. Per osservare i primi risultati di una manovra di questa portata occorrerebbero di fatto anni e il rischio che la conseguente contrazione del mercato possa riflettersi sulle dimensioni del bacino di utenza sarebbe troppo alto.

Ecco perché altri preferirebbero optare per un’ulteriore revisione dei criteri di monetizzazione dei videogame, da declinare in un processo di digitalizzazione del mercato più deciso che, sul modello recentemente adottato di piattaforme streaming come Prime, favorirebbe un cospicuo flusso di introiti supplementari proveniente dagli annunci pubblicitari in game e around game. Logicamente, nessuna delle due cure si prospetta indolore e lo dico, ovviamente, dal punto di vista del gamer. Se avessi un centesimo da scommettere sulla decisione che intraprenderanno i signori della Gaming Industry, io punterei in ogni caso sullo scenario numero due e non certo perché mi garbi di più.

Il fatto è che, conoscendo un po’ il modo di ragionare dei “white collar”, detta soluzione non potrà che apparire loro come la più semplice e rapida. Che poi quest’ultima si limiti soltanto a tamponare l’emorragia per qualche anno è un fattore trascurabile, almeno quanto lo sono gli interessi dei videogiocatori.

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Attivamente Impegnato nel settore editoriale dal 2003, ha scritto per le più note riviste videoludiche italiane, concentrandosi spesso nell'area Retrogaming. Dopo aver pubblicato il saggio Storia delle Avventure Grafiche: l’Eredità Sierra, svolge ruolo di docente presso l’Università degli Studi Link Campus di Roma in collaborazione con la Vigamus Academy rivestendo, in parallelo, la carica di Vice Direttore del mensile multipiattaforma V.