di Gualtiero Cannarsi
Rubrica dal titolo rinnovato rispetto allโepoca di Game Pro per puntare al futuro, totale continuitร di contenuto per non tradire il passato. E avanti si va, sempre guardandoci fieramente indietro! Nell’ultima colonna dell’antico ordine, s’era trattato del tragico crollo che scosse l’intero mercato dei videogiochi nell’anno 1983: dalle stelle del successo galattico nato con Space Invaders, allo stallo innescato dallo schianto nel deserto di E.T., ossia alieni morti e sepolti, letteralmente. Una bolla era esplosa in America, ma l’onda d’urto aveva investito piรน o meno tutto l’Occidente. Qualcosa, come dicevamo, sopravviveva nel vecchio continente, soprattutto grazie a quegli entusiastici home computer che venivano venduti alle famiglie e comprati dai genitori per far cose di radiosa prospettiva come “studiare, programmare, lavorare”, ma poi venivano utilizzati dai pargoli pressochรฉ solo per giocare. Ordinaria amministrazione consumistica ottantiana. La vera rinascita del settore, difatti, sarebbe arrivata da Oriente. Da quel Giappone che giร aveva conquistato una robusta leadership nel segmento arcade. Vi ricordate? Avevamo parlato di stile e stilizzazione, di intrinseco simbolismo al posto di rincorsa al realismo. E s’era detto di una certa sequela di successi, in rapida e continua evoluzione dal primo boom degli invasori ittici dallo spazio: l’ingordo Pac-Man, lo scimmiesco Donkey Kong.
Ripartiamo dunque proprio da lรฌ, nelle sale giochi giapponesi del 1981, due anni prima dello tracollo domestico statunitense di cui sopra. Avevamo anche citato i due nomi dietro alla nascita di quello “scimmione somaro”, ovvero Yokoi Gunpei e Miyamoto Shigeru. Il primo, che si sarebbe detto giร un veterano della Nintendo moderna (quella dei videogame, appunto), era un ingegnere elettronico e un toy designer: sua era l’invenzione dei dilaganti Game&Watch (i lettori piรน giovani potranno “googlare” questo nome), poi lo sarebbe stato il Game Boy, ma in realtร Yokoi piรน che un tecnico era davvero un filosofo della tecnologia, grande fautore della teoria del “pensiero laterale”. Affianco al suo (cog)nome, quello di Miyamoto oggi non necessita certo di presentazioni, solo che al tempo lui era davvero giovane. E innovatore. Lo sviluppo di Donkey Kong era partito come un modo per “riciclare” le schede (hardware) invendute di un altro titolo arcade sempre della Nintendo, quel Radar Scope che uscito appena l’anno prima non aveva proprio fatto scintille, nรฉ faville. Dunque Miyamoto, che non aveva mai sviluppato videogiochi in vita sua, da bravo neofita del settore cominciรฒ a iniettare nella sua “creatura” tutta una serie di idee pressochรฉ inedite. Vale sempre il concetto della libertร dell’inesperienza, come si vede. E Miyamoto pensava a un videogame con una trama e dei personaggi in qualche modo avvincenti, forse oggi si parlerebbe di una “narrativa videoludica”. In effetti, dapprima il progetto era stato concepito intorno al personaggio di Popeye, i barili da saltare erano pieni di birra, la bella da salvare era ovviamente Olive. Curiosamente, il suo bruto e nerboruto rapitore non era Bluto, ma giร uno scimmione, in tutti i sensi. Sarร forse per questo che, una volta abbandonato per difficoltร tecniche e legali il tema di Popeye, tutto il gioco scivolรฒ verso un’atmosfera alla King Kong, con il celebre marinaio trasformato alla bisogna in un ben piรน anonimo carpentiere chiamato genericamente “Jumpman”.
In effetti, proprio l’elemento del “salto” era il cardine della giocabilitร , che volevaย essere profonda ma semplice, e in questo si vede l’applicazione dell’idea di divertimento del “creatore di giocattoli” Yokoi Gunpei. Oltre a ciรฒ: personaggi caratterizzati e riconoscibili, ambientazioni diversificate e variegate, persino una pur scarna presentazione per introdurre le vicende del canovaccio del caso. Questa rivoluzionaria miscela, decretando il successo di Donkey Kong, si impose anche come modello del genere, tracciando un solco d’indirizzo assai nipponico e poi salvifico, una volta esplosa l’imminente crisi. Fu infatti proprio nel 1983 che la Nintendo cambiรฒ nome e mestiere all’eroico carpentiere Jumpman rilanciandolo come l’impavido idraulico Mario, affiancato da suo fratello e collega Luigi, impegnati tra fognature e tubature a combattere contro l’infestazione di minacciosi funghi e tartarughe maligne. Nell’anno del crash dei videogame americani, lo stesso duo di Miyamoto e Yokoi aveva creato Mario Bros. โ ancora senza “Super” e dapprima presentato come il terzo capitolo nella “saga” di Donkey Kong (frattanto se n’era giร visto il primo sequel, intitolato Donkey Kong Jr.) โ un titolo che, pur riscuotendo modesto successo nelle sale giochi giapponesi, sbancรฒ le gettoniere dei cabinati statunitensi, portando una boccata d’aria fresca in un mercato che affrontava la sua ora piรน asfittica e tragica. E sempre nello stesso anno, la Nintendo lanciรฒ in Giappone la sua nuova e rivoluzionaria console per videogiochi domestici: il Family Computer, o Famicom per tutti gli entusiasti giocatori e venditori nipponici, che distribuito negli Stati Uniti dopo varie peripezie costate ben due anni di ritardo, avrebbe fortuitamente centrato una sincronia tanto felice da risollevare e conquistare le sorti e le ambizioni dell’intero “mondo” dei videogiochi. Scacco matto in due mosse: era oramai il 1985, l’anno dell’uscita dell’originale Super Mario Bros., il nuovo capolavoro di Miyamoto Shigeru, destinato a segnare in maniera indelebile la videoludica tanto arcade che casalinga di tutto il pianeta, fino ai giorni d’oggi.
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