A volte le cose vanno in un determinato modo per una serie fortuita di situazioni contingenti che contribuiscono a creare uno specifico risultato. Basta una piccolissima modifica a quell’insieme determinato di fattori e possiamo dire addio al nostro risultato.
Voi penserete che io sia matta, ma questo è stato il mio primo pensiero quando sono venuta a conoscenza dell’esistenza reale (e non metafisica) di Kingdom Come: Deliverance II. Questo mio editoriale però non vuole essere una riflessione, o, peggio ancora, una premonizione autocompiaciuta sulla bontà del nuovo progetto di Warhorse Studio che, per quanto mi riguarda, fino alla sua uscita resterà un gatto di Schrodinger, ottimo e pessimo allo stesso momento.
Con questo editoriale, il mio primo per V, voglio condividere con voi una delle mie convinzioni più radicate e cioè che la bontà di un titolo non ha nulla a che vedere con la mole di soldi messa in piedi per realizzarlo ma che spesso proprio quell’investimento non solo influisce in minima parte sul risultato finale ma che spesso anzi proprio quella montagna di soldi finisce con il compromettere tutto il processo. So benissimo che i soldi sono una componente indispensabile per la realizzazione di un videogioco, e sarei una folle a pensare il contrario, ma è anche vero che possono trasformarsi in uno strumento di ricatto estremamente pericoloso. Prendendo ad esempio il team di Warhorse, quando hanno cominciato a lavorare sul Kingdom Come avevano una forte convinzione a trainare il loro lavoro, molte idee e zero investimento iniziale. Dopo tanto interessamento da parte di tutti e una campagna kickstarter colossale, il sogno diventato realtà ha trasformato le aspirazioni del giovane gruppo polacco in un successo conclamato.
Ora, a Warhorse non è servito più Kickstarter, ora possono permettersi un video di annuncio di 13 minuti, con tanto di concerto in cattedrale e orchestra in presa diretta. Una cosa a dir poco spettacolare, all’interno di un video che, tra le altre cose, oltre a presentare il sequel di Kingdom Come, chiarisce bene come quella forte convinzione sia ancora lì e traini ancora il loro lavoro; ma quali sono gli interessi in gioco, questa volta? Lasciatemi dire l’ovvio. Gli interessi in gioco sono molto diversi e coinvolgono attori ben più consapevoli dei backers di Kickstarter. Scadenze improrogabili, campagne marketing worldwide, hype leverage… tutte cose che, quasi sicuramente, dieci anni fa non erano tra le preoccupazioni di Warhorse, e alcune delle quali sono state causa della disfatta di compagnie ben più corazzate.
Non è sostenibile pensare di poter continuare a produrre giochi sempre più costosi e da questi riuscire a guadagnare cifre a 6 o 9 zeri. Il cinema ci ha dimostrato che non è questa la strada giusta, che non sono gli Avenger a far progredire il medium e che, tantomeno, rappresentano la qualità. Gli Avengers servono solo a riempire le tasche di chi li ha prodotti nutrendo una pletora di spettatori passivi che gioiscono inconsapevoli di mangiare sempre la stessa schifezza. E quando gli Avengers non funzionano più… avanti il prossimo.
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