La nuova serie post apocalittica di Amazon Prime Video, Fallout, vanta una storia videoludica quasi trentennale. La cosa potrebbe spaventare, ma non è detto che lo sia. Se avete appena guardato tutti gli otto episodi o siete semplicemente curiosi di saperne di più sulla serie di giochi di ruolo che ha definito un vero e proprio genere, il pensiero di recuperare un numero imprecisato di titoli potrebbe spaventare, ma non preoccupatevi perché avete davvero l’imbarazzo della scelta. Che siate fan sfegatati già al passo con ogni singolo capitolo oppure non vi consideriate affatto dei giocatori, c’è un Fallout che fa per voi. La sua incarnazione più recente, Fallout 76 (se escludiamo lo spin-off mobile Fallout Shelter, uscito pochi mesi più tardi), è un action RPG a mondo aperto sviluppato da Bethesda, gli autori di Skyrim e Starfield. Lo studio del Maryland ha acquisito un franchise essenzialmente inattivo e lo ha rilanciato nel 2008 con Fallout 3, primo della serie con una visuale in prima persona e combattimenti in tempo reale. Pur discostandosi dalla sua concezione iniziale, Fallout 3 e la sua Washington D.C. contaminata dalle radiazioni sono stati un successo immediato. Fallout 4, il sequel che ha incorporato una parte maggiore del DNA di Bethesda, è ad oggi il gioco più venduto dell’intero franchise, con i suoi 25 milioni di copie in circolazione che sono destinati a salire grazie al recente rilascio dell’upgrade per la generazione attuale di macchine.
Non c’è da meravigliarsi: la rinascita della serie è stata pianificata durante il revival degli universi digitali postatomici, e il connubio con una versione più evoluta delle missioni radianti di Skyrim, che forniscono al giocatore infiniti contenuti generati in maniera casuale, era praticamente destinato a stampare soldi. Ma Fallout ha mantenuto alcuni aspetti caratteristici nel corso degli anni, in primis la sua satira spietata sull’utopia americana di una società perfettamente conservativa: Tim Cain, Scott Campbell, Christopher Taylor e quanti hanno raccolto la loro eredità sono sempre stati critici nei confronti di tali istituzioni, e per questo troviamo un mondo in cui il governo dà la priorità alla salvezza di se stesso mentre i cittadini vengono relegati a esperimenti crudeli di cui non sono nemmeno consapevoli. Si tratta sicuramente di argomenti pesanti, ma Fallout ha sempre alleggerito l’atmosfera introducendo elementi fantastici, come miliardari che vivono all’interno di computer, roditori ascesi al rango di divinità e bande di nonne assassine. Lasciate perciò che vi guidi alla scoperta delle origini di questa saga, quando un piccolo motore grafico realizzato da un singolo dipendente della Interplay avrebbe dato vita ad una memorabile opera d’arte ruolistica.
Nel mondo di Fallout, la guerra non cambia mai
Immaginate un mondo in cui il transistor è rimasto un’idea astratta e l’apice del progresso scientifico è rappresentato dalle valvole termoelettriche e dalla fisica atomica; nel quale gli Stati Uniti non sono mai andati oltre gli anni ‘50 e il panorama brulica di villette a schiera tutte uguali, di uomini che indossano cappelli a tesa larga e fumano la pipa, di casalinghe fasciate nei loro coloratissimi grembiuli da cucina, di bambini lentigginosi con la fionda sempre in tasca e di ragazze che sfoggiano gonne di feltro lunghe fino alla caviglia, tutti pieni di sorrisi e ottimismo; un mondo in cui il consumo smodato di carburanti fossili ha costretto le superpotenze mondiali ad una lotta disperata per accaparrarsi le ultime riserve esistenti di carbone, gas naturale e petrolio finché, il 23 ottobre 2077, questa società in apparenza idilliaca giunge repentinamente al termine. Nessuno rammenta chi abbia lanciato il primo missile ma, una volta in volo, tutte le altre nazioni lasciarono partire i propri in risposta. La Grande Guerra, così come venne ribattezzata dai superstiti, fu in realtà anche una delle più brevi: appena due ore più tardi, l’intero pianeta era avvolto dalle fiamme dell’olocausto nucleare, che distrussero la stragrande maggioranza dei centri abitati e delle creature viventi, oltre a stravolgere per sempre l’equilibrio climatico. I pochi scampati agli effetti nefasti delle radiazioni sono quindi costretti ad aggirarsi in mezzo ai ruderi di una civiltà annientata dalla propria ingordigia, radunati in gruppi più o meno organizzati per fronteggiare i pericoli di queste nuove terre selvagge e desolate, ma qualcuno ha potuto beneficiare di un destino migliore (o peggiore, a seconda dei punti di vista) rispetto agli altri: l’intero territorio nordamericano è infatti disseminato di cosiddetti “Vault”, vere e proprie cittadelle sotterranee costruite da una compagnia privata per fornire alla popolazione un luogo che ne garantisse benessere e prosperità qualora (guarda caso) si fosse scatenato un conflitto globale, ed è proprio da uno di essi, il numero 13 per l’esattezza, che emerge il protagonista delle vicende sotto il nostro controllo, armato di una semplice pistola, di una mappa rudimentale e di una missione che avrebbe cambiato per sempre il destino degli abitanti del suo rifugio.
Queste le premesse di Fallout, gioco di ruolo post-apocalittico che nacque, nelle intenzioni del produttore esecutivo Brian Fargo, come sequel spirituale del suo Wasteland, la cui proprietà intellettuale dopo la pubblicazione rimase in mano a Electronic Arts. Dalla genesi come Vault 13: A GURPS Post-Nuclear Adventure, basato sul set di regole generiche ideate da Steve Jackson, all’inclusione del proprietario ed ormai iconico sistema SPECIAL (dal nome delle caratteristiche principali che governano le capacità del protagonista: Strength, Perception, Endurance, Charisma, Intelligence, Agility e Luck) dopo il passo indietro della SJG, che quasi rischiò di far naufragare l’intero progetto a causa dello scarsissimo lasso di tempo concesso a Chris Taylor, Jesse Heinig e Tim Cain per implementarlo, i principi elementari sui quali il team basò le fondamenta del titolo rimasero invariati: qualunque problematica incontrata dal giocatore doveva possedere molteplici risoluzioni, il sottotesto umoristico poteva sfociare nella commedia nera ma mai nel demenziale, era necessario fornire pari importanza a tutte le caratteristiche in modo da incentivare stili di gioco differenti e, soprattutto, ogni singola scelta avrebbe avuto un impatto tangibile sul mondo e sulle relazioni con gli altri personaggi non giocanti. Una manciata di linee guida chiare e concise, che gli stessi sviluppatori hanno aggirato o infranto a più riprese e che, al contempo, hanno definito un sottogenere specifico di CRPG: l’enfasi posta su statistiche numeriche e abilità, l’assenza di classi o archetipi ben definiti per plasmare il personaggio secondo i gusti personali, la storia suddivisa in segmenti a prima vista slegati che si congiungono strada facendo e si sviluppano in finali diversi a seconda delle azioni intraprese, tutti elementi ripresi in varia misura da molte produzioni successive ma che qui, in questa lucida follia partorita dalla mente del succitato Timothy Cain che si ridusse addirittura a supplicare i dirigenti di Interplay per impedire la cancellazione del progetto, ritenuto “poco competitivo” rispetto alla concorrenza, trovarono la loro prima, completa e riuscitissima espressione.
Quello stampato sulla tuta dev’essere il tuo QI
Il primo Fallout si apre con un’introduzione impressa a fuoco nelle menti di quanti vi assistettero all’epoca: una panoramica in bianco e nero sul futuro retromoderno che rappresenta il fulcro dell’ambientazione, pieno di tecnologia avulsa dal proprio contesto temporale e di soldati in armatura pesante che abbattono i dissidenti sulle note di Maybe degli Ink Spots, seguiti dal celebre monologo di un ispirato Ron Perlman che afferma come la guerra, i conflitti, le motivazioni che spingono gli uomini a combattere fra di loro non cambino mai, nemmeno quando gli stessi hanno provocato la totale e irreversibile demolizione della società. Le parole introduttive dipingono alla perfezione i dolorosi trascorsi del mondo nel quale il giocatore si appresta ad entrare, e lo stesso accade durante le prime ore di gioco, incentrate sull’espediente narrativo del “mostra, non raccontare” utile per farlo calare al meglio nel contesto senza affogarlo in un mare di informazioni ridondanti. La missione principale, che ci vede impegnati nel recupero di un nuovo chip necessario per la purificazione dell’acqua del nostro Vault, è ben strutturata ma non costituisce il fattore principale che ci spinge a progredire, eccezion fatta per il limite di 500 giorni imposto per completarla (comunque rimosso con una patch) pena un prematuro game over: tale stimolo va piuttosto ricercato nel fitto intreccio di sottotrame che si snoda fra i pochi centri abitati sorti dalle rovine che costellano la superficie, e dalle creature (umane o meno) che li abitano, causa diretta o riflessa dei contrasti interni che saremo chiamati a risolvere.
L’autentico fascino di Fallout risiede proprio in questa eterogenea mescolanza di caratteri e situazioni, elaborata per affrescare una porzione discontinua di (ex) Stati Uniti che, per quanto accomunata dall’istinto di autoconservazione, inizia a porsi il problema di come ripristinare i concetti di popolo e di governo, esplorando soluzioni spesso fin troppo totalitarie. L’ascendente del protagonista sulle questioni che emergeranno di volta in volta può spaziare dalla mediazione diplomatica all’intervento armato, passando per tutta una serie di sfumature di grigio intermedie sulle quali influiscono le circostanze ed i punteggi di caratteristica, sempre in virtù della filosofia di conferire a tutti gli attributi dello SPECIAL il medesimo rilievo: il gioco non forza mai la mano su una specifica alternativa e, posto di avere punteggi sufficientemente alti ed un pizzico di fortuna, consente di raggiungere la giusta conclusione del nostro pellegrinaggio senza mai menare le mani, o quasi. Non che ci sia nulla di male, comunque, perché il combattimento è un altro dei suoi punti di forza: Fallout adotta una prospettiva isometrica fissa e gli eventuali scontri si svolgono sul medesimo scenario nel quale vengono provocati, rivestito da un’appropriata griglia per evidenziare gli spazi di manovra delle unità coinvolte. Il sistema è a turni alterni e si basa sulla gestione di un certo quantitativo di punti azione, che è possibile spendere per muoversi, portare attacchi e migliorare l’efficacia delle proprie azioni, come prendere di mira una specifica parte del corpo per infliggere penalità assortite. Oltre alle caratteristiche di base, durante le battaglie entrano in gioco anche i tratti impostati in fase di creazione del personaggio ed i benefici scelti al passaggio di livello, che condizionano le prestazioni complessive e possono scatenare effetti aggiuntivi, tanto benefici quanto malsani. Sono meccaniche molto più complesse da spiegare che da comprendere, integrate in maniera da risultare estremamente intuitive dopo averci preso la mano perché, come il resto del gioco, sono state pensate per gratificare quanti vogliono immergersi appieno nelle loro dinamiche.
Fallout: sei un eroe, e te ne devi andare
Rilasciato a pochi mesi di distanza dal predecessore, Fallout 2 ricicla pesantemente l’interfaccia e gli asset dell’originale e ci cala nei panni del discendente diretto del suo protagonista, in senso piuttosto letterale dato che il villaggio in cui risiede conserva le vesti di quest’ultimo come una reliquia. Il compito che ci viene affidato è financo simile a quello svolto dal celebre antenato, ma la sua riuscita non è così determinante e il quantitativo gargantuesco di trame secondarie, che spesso si sviluppano nel corso di più missioni consequenziali, finisce ben presto per relegarlo sul fondo delle nostre priorità. Il secondo capitolo di Fallout sembra sia stato costruito seguendo il manuale non scritto del perfetto sequel: infarcito di aree molto più vaste, di un numero maggiore di armi e oggetti vari, di battaglie su larga scala, di un numero straordinario di segreti e incontri speciali, nonché di battute e riferimenti alla cultura pop che, tuttavia, smorzano parecchio le tonalità più cupe dell’ambientazione e trasformano l’avventura in una sorta di parodia catastrofica del classico passaggio dall’adolescenza all’età adulta del personaggio principale. Ciò comunque non significa che il titolo sia privo di passaggi controversi, anzi: la presenza di tematiche forti come il sesso, l’abuso di droghe e l’estrema violenza hanno sollevato diverse polemiche al tempo, legate in particolar modo alla possibilità di uccidere dei minorenni.
Per quanto l’atto in sé venga espressamente criticato e porti a una drastica perdita di reputazione nel gioco, alcune nazioni decisero di censurare tale aspetto modificando il codice in modo da rendere invisibili tutti i bambini… peccato però che il gioco ne registri lo stesso la presenza, e dunque permetta ugualmente al giocatore di guadagnare il titolo di “ammazzabimbi” per puro caso, magari in seguito al lancio di una granata in una zona apparentemente deserta. Altre novità sostanziali includono la presenza di un’auto a propulsione atomica che è possibile riparare per ottenere un inventario più capiente e un modo di raggiungere in fretta le destinazioni prefissate, come pure la revisione del sistema di allineamento che offre anche l’accesso a vantaggi specifici per la nostra inclinazione morale. L’estensione del gioco, l’assenza di gran parte dello staff originario e gli esigui tempi di sviluppo non hanno giovato al risultato finale, schiacciato sotto il peso di un gran numero di bug, ma nel complesso i momenti memorabili di Fallout 2 superano di gran lunga le sue mancanze e la formula da lui adottata vale la pena di essere vissuta per l’ultima volta, perché i suoi eredi la abbandoneranno per imboccare direzioni differenti.
Un’altra cosa, signorine: benvenute nella Fratellanza d’Acciaio
A tal proposito, e tanto per completare il trittico di produzioni Interplay ambientate nel medesimo universo narrativo (o, quantomeno, di quelle da lei realizzate di cui vale la pena discorrere in maniera esaustiva), è necessario parlare anche di Fallout Tactics: Brotherhood of Steel, uno strategico in tutto e per tutto con elementi ruolistici ridotti all’osso che sfrutta le caratteristiche di base del capostipite (interfaccia e telecamera isometrica, perlopiù) per offrire al giocatore una serie di mappe affrontabili con tre modalità: turni legati all’iniziativa individuale, turni suddivisi fra squadra alleata e squadra antagonista come accade in UFO: Enemy Unknown, oppure tempo reale come nell’indimenticabile Commandos: Behind Enemy Lines. Il posizionamento ambientale si traduce in benefici (o svantaggi) concreti, e bisogna imparare in fretta a cercare i punti migliori delle mappe dai quali sferrare assalti mirati, dato che saremo quasi sempre in netta inferiorità numerica. Muoversi con cautela, nascondendosi dietro i ripari o strisciando fra la vegetazione, ha la precedenza su qualsiasi altro tipo di manovra per tentare di cogliere alla sprovvista quanti più avversari possibile, ma di contro tale esigenza rallenta all’inverosimile lo svolgimento del gioco e la pessima intelligenza artificiale dei personaggi controllati, che non di rado abbandonano le coperture e si lasciano sforacchiare dai proiettili nemici mentre raggiungono la destinazione selezionata, abbassa ulteriormente la soglia di tolleranza. La storia, come era lecito aspettarsi, tocca alcuni soggetti cari ai capitoli “numerati” ma procede lungo binari prestabiliti senza quasi nessuna possibilità di alterarne lo svolgimento, se escludiamo alcune decisioni prese durante le battute conclusive e la condotta del nostro drappello, un distaccamento della Confraternita d’Acciaio alla ricerca di un vault misterioso.
Tutto sommato, Fallout Tactics non è un brutto gioco, ma difetta degli obiettivi a lungo termine che caratterizzavano i suoi antesignani, di una bella smerigliata sugli spigoli più ruvidi (anche questa è una peculiarità talmente tipica dell’intera saga, persino post-Interplay, da poter essere considerata un marchio di fabbrica) e di un ritmo più intenso che avrebbe certamente tenuto a bada il senso di tedio che inizia ad insinuarsi dopo le fasi iniziali, ma è consigliabile per affondare ancora una volta i denti nell’ambientazione vecchio stampo di Fallout e per quanti ne hanno apprezzato il sistema di combattimento, quello almeno ritoccato e perfezionato a dovere. Il suo sequel diretto, che avrebbe potuto correggere il tiro sotto molti aspetti, venne cassato per colpa dello scarso successo di vendita, dettaglio che in effetti ha accomunato tutti gli episodi antecedenti alla cessione dei diritti a Bethesda Softworks: commercialmente, sia Fallout 1 che Fallout 2 non si sono rivelati all’altezza delle aspettative vendendo qualcosa come 100000 copie in tutto il mondo, respinti da un pubblico che iniziava a farsi affascinare dalla terza dimensione ed a snobbare titoli bidimensionali percepiti come vetusti, arcaici, superati. Ma, per fortuna, di anno in anno il passaparola ha funzionato e la reale portata del sogno distopico coltivato da un piccolo team di sviluppo interno di Interplay è riuscita ad emergere, nonostante il mercato avverso: al di là dei pregiudizi estetici e del comparto tecnico, infatti, chiunque abbia giocato al primo Fallout non può che esaltarne i toni al contempo foschi e sarcastici, l’ambientazione anacronistica e post-apocalittica che trae il meglio dal corrispettivo genere romanzesco, l’incredibile grado di personalizzazione del proprio personaggio, l’azzeccatissimo sistema di combattimento tattico, la portentosa sceneggiatura e l’umorismo macabro che la contraddistingue senza attenuare l’impatto emotivo, come pure la violenza smodata degna dei migliori racconti pulp. La verità è che Fallout è un gioco che ha cambiato per sempre il corso della storia videoludica, un autentico baluardo della declinazione ruolistica occidentale cui, oggi come allora, molti altri lavori che ricadono nella medesima categoria sono più che disposti a rendere il doveroso tributo.
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