Creato da Infogrames nel 1992, Alone in the Dark ha rappresentato una rivoluzione nel panorama dei videogiochi horror, distinguendosi nettamente dalle avventure grafiche tradizionali dell’epoca. Queste ultime si affidavano prevalentemente a meccaniche di gioco basate su sistemi punta e clicca, mentre Frédérick Raynal, con una visione avanguardistica, ha introdotto un’esperienza di gioco tridimensionale. I personaggi poligonali si muovevano in scenari pre-renderizzati, creando un’atmosfera immersiva e una narrazione che ricordava lo stile cinematografico. Il gameplay del titolo firmato Infogrames era caratterizzato da una complessità e una profondità che hanno contribuito a definire il concetto di survival horror, un genere che sarebbe stato poi consolidato e reso popolare da titoli come Resident Evil di Capcom. Il successo di questo innovativo approccio ha portato alla creazione di due sequel diretti che hanno ulteriormente elevato lo standard del gioco originale, oltre a uno spin-off comunque di qualità accettabile, The New Nightmare. Dopodiché, i successivi non hanno saputo replicare una formula altrettanto valida né per il pubblico né per la critica, e così la serie è stata messa in pausa per un periodo di tempo indefinito. Dopo una successione di incertezze e cambiamenti, inclusa la vendita del franchise a THQ Nordic, Alone in the Dark prova adesso a riscattarsi e ritrovare la strada del successo che l’ha reso l’autentico capostipite del suo genere.
Il nuovo capitolo, sviluppato da Pieces Interactive e che porta il nome dell’originale, è un tentativo di riconnettersi con l’eredità e il prestigio dei suoi predecessori. Il team di sviluppo, guidato da figure di spicco come Mikael Hedberg e Guy Davis, e con il benestare di Raynal, ha lavorato con dedizione per creare un’esperienza che rispecchiasse la qualità e l’innovazione del primo capitolo. Il cuore, dunque, è al posto giusto, e tanto la sostanza quanto il fascino delle avventure che hanno reso memorabile la trilogia primigenia di Edward Carnby sembrano trapelare da ogni singola inquadratura della rinnovata Villa Derceto. Il team svedese sarà dunque riuscito ad attualizzare il leggendario progenitore del genere per una platea moderna, oppure i suoi sforzi sono destinati a perdersi nel buio dei corridoi della spettrale magione?
Alone in the Dark: benvenuti nella gabbia di matti, detective
Un racconto avvincente è l’anima di ogni narrazione horror che si rispetti, e in questa nuova avventura i programmatori, guidati dall’acume creativo di Hedberg, hanno di fatto eseguito un lavoro notevole. La vicenda, che trae ispirazione dagli episodi e dalle ambientazioni dei primi tre capitoli della serie, ha inizio nel 1924 nella suggestiva Louisiana. Emily Hartwood si ritrova destinataria di una comunicazione epistolare dallo zio Jeremy, da tempo residente a villa Derceto, un’antica residenza riconvertita in casa di cura per patologie mentali. Nella corrispondenza, Jeremy narra di visioni spaventose di natura cosmica e di allucinazioni voodoo, e confessa di essere perseguitato da una sinistra figura nota come l’uomo nero. Con la consapevolezza dei disturbi psichici che da generazioni affliggono la sua famiglia, spesso culminati in tragedie, Emily è determinata a recarsi presso la clinica per un confronto diretto con lo zio. Dubbiosa in merito alle rivelazioni che potrebbe incontrare, si avvale dell’assistenza di Edward Carnby, un investigatore dall’aspetto ruvido e dallo scetticismo marcato, ma dotato di un’intelligenza emotiva e di abilità logiche fuori dal comune.
Al loro arrivo a Derceto, i due si aspettano di trovarsi di fronte a un edificio abbandonato, ma si rendono conto con sorpresa che non sono gli unici presenti: altri soggetti, alcuni dei quali volti familiari a loro volta reinterpretati della serie originale, si muovono tra le ombre, ciascuno impegnato a badare alle proprie faccende personali e caratterizzati da una pletora di idiosincrasie. Tuttavia, nelle tenebre di Derceto non si celano soltanto esseri umani. Il ritrovamento di un autoritratto di Jeremy segna l’inizio di un’avventura ancora più oscura e perturbante, che si snoda attraverso dimensioni parallele, antichi cimiteri, entità di altri mondi, strade deserte e gli angoli più reconditi della villa. Ciò che inizialmente appare come un’indagine sui classici rituali voodoo, divinità antiche e manieri misteriosi, si trasforma in una discesa nelle profondità interiori di protagonisti e comprimari, dove le apparenze sono spesso ingannevoli. La trama concepita da Hedberg, impreziosita da sequenze cinematografiche, indizi nascosti, tomi e documenti vari, si rivela subito coinvolgente, stimolando la ricerca di nuove prove e conversazioni. Pur attingendo da alcuni elementi già noti da tutti gli appassionati della saga, gli sviluppatori hanno sapientemente inserito una moltitudine di contenuti inediti, traendo con destrezza un cospicuo quantitativo di spunti anche dai racconti stilati dal padre assoluto dell’orrore cosmico, lo scrittore di Providence H.P. Lovecraft, in modi spesso molto espliciti e diretti.
Non posso farcela da sola
Nella sua rilettura, Pieces Interactive ha optato per adottare le medesime dinamiche della serie originale. Pertanto, l’approccio è molto tradizionale, sebbene venga eseguito con eleganza. La nostra avventura inizia selezionando uno dei personaggi principali, Edward Carnby o Emily Hartwood, i cui percorsi narrativi si differenzieranno in certi frangenti per trama, metodologia, luoghi e interazioni con altri personaggi. Successivamente, potremo scegliere di intraprendere il viaggio in modalità tradizionale, senza alcun tipo di assistenza, o in una versione più moderna, semplificata per coloro che non sono familiari con questo tipo di gioco. Elementi cruciali saranno le investigazioni e gli enigmi: durante le prime, assembleremo indizi, dialoghi, documenti, lettere, libri e descrizioni di oggetti per ricostruire la storia nascosta dietro Villa Derceto, un sistema di narrazione affascinante e ben strutturato. Tuttavia, il fulcro dell’avventura si trova nei puzzle, sia quelli ambientali che quelli individuali. In alcuni casi, sarà sufficiente utilizzare l’oggetto corretto nel posto giusto (gli sviluppatori sembrano avere una predilezione per le chiavi), ma molti regaleranno ben altre soddisfazioni. Malgrado non ci sia nulla di inedito, con puzzle che includono pezzi da riordinare, simboli da ruotare, indizi da decifrare nei documenti, combinazioni numeriche da ricomporre e statuette da riallineare, l’insieme è ben realizzato e piacevole. A volte, la ricerca degli indizi per risolvere un rompicapo, alcuni dei quali abbastanza intricati, ma mai esasperanti, è addirittura più appassionante del rompicapo stesso. Per assisterci, a seconda della modalità scelta, disporremo di uno zoom visivo estremamente utile, che mette in evidenza gli oggetti interattivi, e di una mappa che man mano rivela la posizione degli enigmi, delle porte chiuse o aperte, e delle stanze completate o da esplorare con colori diversi. Ma un gioco di sopravvivenza a tinte horror, in particolar modo se appartiene a una serie che ha inaugurato e definito la propria categoria, non sarebbe completo senza gli scontri a fuoco o all’arma bianca, ed è qui che le pareti del fatiscente istituto psichiatrico iniziano a scricchiolare.
Il sistema di combattimento di Alone in the Dark si presenta di fatto come un retaggio del passato, una reliquia che, nonostante gli sforzi, mostra ragguardevoli crepe sotto il peso delle moderne aspettative videoludiche. La scelta di rimanere fedeli alle meccaniche della trilogia originale, sebbene possa evocare un senso di nostalgia, si traduce in un’esperienza di gioco che a tratti può risultare fin troppo obsoleta e artificiosa. Le battaglie corpo a corpo, in particolare, sono fonte di frustrazione: i giocatori si trovano spesso a lottare non solo contro le minacce oscure che infestano Derceto, ma anche contro un sistema di controllo che manca di scioltezza e reattività. Le armi da mischia, pur essendo un’aggiunta interessante all’arsenale del giocatore, si rivelano essere a doppio taglio: la loro tendenza a rompersi facilmente interrompe il flusso dell’azione e richiede una continua ricerca di sostituti, distogliendo l’attenzione dalle dinamiche più coinvolgenti. Inoltre, la rigidità nel cambiare direzione durante un attacco o la difficoltà nel neutralizzare un avversario senza subire danni, aggiungono un ulteriore strato di laboriosità che non sempre si traduce in divertimento. Nel complesso, questa sfaccettatura ludica si pone in netto contrasto con l’atmosfera tesa e coinvolgente che caratterizza il resto dell’avventura, e potrebbe scoraggiare i giocatori meno pazienti o quelli in cerca di un’esperienza più moderna e levigata. Come da copione, le creature ostili possono ucciderci con relativa facilità se non manteniamo la distanza o non ci sbarazziamo in fretta di loro. Il gioco offre con regolarità svariati modi per rimpinguare le scorte di strumenti offensivi, diversivi e munizioni, tanto che potremmo essere pervasi da un certo senso di sicurezza e sentirci pronti ad affrontare qualunque minaccia si celi dietro il prossimo angolo, ma si tratta di una percezione fallace poiché i nemici si rivelano sempre più numerosi delle nostre pallottole e le fughe rocambolesche sono all’ordine del giorno. Peraltro, la discutibile decisione di separare in maniera deliberata le fasi di esplorazione da quelle di combattimento genera una sensazione straniante, sottraendo alle prime l’urgenza di agire sotto un qualsivoglia tipo di minaccia incombente e caricando le seconde con il semplice desiderio di portarle a termine il più in fretta possibile.
Questa notte ha qualcosa di strano
Mentre la componente visiva di Alone in the Dark potrebbe non essere all’altezza di titoli più elaborati graficamente, il gioco si distingue per una serie di idee brillanti e scenari affascinanti. La prospettiva di gioco si rinnova rispetto agli episodi precedenti, optando per una moderna inquadratura dinamica posta dietro al personaggio giocante. I personaggi sono distintivi e visivamente accattivanti, con particolare attenzione ai protagonisti principali. Interessante notare che le interpretazioni di Jodie Comer e David Harbour sono state così convincenti che Pieces Interactive ha rielaborato diverse sequenze cinematografiche per valorizzare la loro performance. Tuttavia, sono le ambientazioni a rubare la scena in questa edizione, con alcuni luoghi che si rifanno al tradizionale repertorio da pellicola horror, come cimiteri e monasteri in rovina, mentre altri, ad esempio le dimensioni alternative e gli excursus temporali, offrono un tocco di originalità supplementare. Anche gli ambienti più basilari, come gli interni degli edifici, sono minuziosamente dettagliati, con elementi decorativi che vanno da opere d’arte a pareti consunte, mobili antichi e simboli misteriosi, che insieme ricreano un’atmosfera di decadenza e follia tipica di Villa Derceto e dei suoi inquietanti residenti. Inoltre, autentico cuore pulsante dell’intera produzione è la magnifica colonna sonora, un vero trionfo di composizioni noir che catturano l’essenza dell’epoca e amplificano ogni momento di tensione e mistero. Le melodie si muovono agilmente tra l’inquietante e il sublime, con tocchi di jazz che rispecchiano l’ambientazione storica del gioco, creando un’atmosfera sonora che è tanto immersiva quanto memorabile. Il doppiaggio, altrettanto notevole, aggiunge profondità ai personaggi, rendendo ogni dialogo e interazione più vivida e convincente.
A dispetto di queste indiscutibili qualità, il gioco non è comunque esente da difetti tecnici. La grafica, sebbene adeguata, non raggiunge i livelli di altri titoli contemporanei, risultando a volte datata e priva di mordente. Questo aspetto, insieme a un discreto assortimento di bug grafici e sonori di minore entità, suggerisce che la produzione avrebbe potuto beneficiare di ulteriori rifiniture. Tali problemi, per quanto non gravi, possono distogliere dall’esperienza complessiva, soprattutto per i più esigenti tra il pubblico. Come se non bastasse, il lungo e travagliato sviluppo del gioco si riflette nella sua esecuzione su piattaforme attuali, lasciando l’impressione che Alone in the Dark sia stato pensato per un hardware di almeno una generazione precedente. Questo non diminuisce il valore dell’esperienza narrativa o del coinvolgimento personale, ma pone in evidenza la necessità di un aggiornamento tecnologico per sfruttare appieno le capacità delle console e dei PC moderni, che chissà se arriverà mai.
Data l’ammirazione che nutro per la serie originale, le aspettative erano elevate e, purtroppo, non tutte sono state soddisfatte. Il titolo si presenta come un omaggio ai classici del genere, tentando di, e in parte riuscendo a, redimere il brand dopo due capitoli decisamente manchevoli: Pieces Interactive ha scelto di non azzardare sperimentazioni potenzialmente rischiose, ripiegando sugli stilemi classici di tanti altri simili seppur implementati con competenza. Tuttavia, i difetti non sono trascurabili: bug tecnici, un sistema di combattimento che manca di fluidità e può risultare frustrante, e un’apparente riluttanza a diversificare le meccaniche lasciano l’amara impressione che questo Alone in the Dark sia un’opportunità mancata. Tali aspetti negativi, pur non compromettendo completamente l’esperienza che resta valida in termini narrativi, atmosferici e soprattutto acustici, ne limitano l’apprezzamento ad una platea di strenui appassionati e suggeriscono che il gioco avrebbe potuto beneficiare di ulteriori sviluppi, rifiniture e magari qualche ragionamento di design supplementare.