Dune, dalle scritture di Frank Herbert, alla penna di altri che ne hanno raccolto l’eredità, fino ad arrivare alla trasposizione cinematografica ispirata di Denis Villeneuve (e tutto il conseguente carrozzone di merchandise allegato) Un testo “sacro” della fantascienza moderna che come una folata di sabbia rovente viene a portarci l’eco della venuta di un falso messia. Di sfondo l’aridità dell’animo umano coinvolto in una guerra di potere, un dramma dinastico fagocitato dalla ossessione per il controllo della Spezia, una sostanza stupefacente in grado di prevedere il futuro ma anche di controllare economicamente l’universo. Qui, a piccoli passi sapientemente poggiati sul terreno, con rispetto, senza voler svegliare un mostro di pregiudizi riservati nel tempo anche solo dal cercare di rendere giustizia a questo testo senza età pubblicato nel 1965 (aveva “fallito” David Lynch, ci aveva rinunciato Jodorowsky) il regista canadese firma la sua versione del primo libro della saga e ne fa un colossal autoriale a gusto personale, diviso in tre film, parliamo della seconda parte, Dune: Parte 2.
Dune – Parte Due: La diaspora
Il giovane rampollo del ducato Atreides, Paul, sopravvive ad un colpo di stato e dopo l’assassinio di sua padre trova rifugio nel deserto presso la tribù dei Fremen, astuti guerrieri, abili filosofi discendenti di un popolo nomade, figli di una diaspora che li ha portati sul pianeta di Arrakis. Sono alla ricerca di un liberatore, un Messia che li guiderà verso la creazione di un “pianeta verde”. I Fremen sono gli unici esseri umani in grado di vivere nell’atroce deserto di Dune, grazie ad una rigidissima disciplina circa il consumo dell’acqua contenuta nel corpo umano (neanche una lacrima deve essere versata, neppure durante un rito funebre) e alle tute distillanti, una particolare attrezzatura in grado di preservare i fluidi corporei e sfruttarli per permettere il riciclo d’acqua necessario a sopravvivere dove c’è solo la luce del sole. Paul è addestrato nell’arte della guerra e i confronti corpo a corpo, ma è totalmente impreparato ad una vita lontana dai suoi nobili natali del suo ospitale e rigoglioso pianeta d’origine. Covando del legittimo rancore verso gli assassini di suo padre, trova rifugio tra le braccia di Chany Kynes, una sua coetanea, figlia del popolo dei Fremen, di cui inevitabilmente si innamora. Ma altre forze in gioco si muovono per il controllo della Spezia…
Pedine bianche, pedine nere la scacchiera prende forma
Il duca Leto, padre di Paul, è stato assassinato a tradimento. I responsabili sono le altre forze in gioco durante questa faida degenerata. Uno dei temi principali di tutto il ciclo di Dune è l’importanza e lo strapotere della “paura”. La personificazione del terrore instillato da questo sentimento è la famiglia degli Harkonnen, nella persona del barone Valdimir Harkonnen (interpretato da Stellan Skasrsgard) e dei suoi litigiosi nipoti Rabban (Dave Bautista) e il na-barone Feyd-Rautha (Austin Butler). Violenti, succubi della loro stessa avidità, con la percezione di essere invulnerabili, vantano un arsenale di armi avanzatissime. Un’altra forza in gioco è l’Impero retto dall’oramai avvizzito Shaddam IV (interpretato in questa versione da Cristopher Walken) e sua figlia, la principessa Irulan (Florence Pugh) che attraverso la redazione dei suoi diari ci riporta gli accadimenti di questa storia. Nell’orecchio dell’Imperatore bisbigliano le appartenenti alla Sorellanza Bene Gesserit, senza la quale nessuna pedina si muoverebbe a dovere.
Una Guerra concettuale
Per capire Dune bisogna conoscere le Bene Gesserit. Nel primo film il regista sembrava aver trascurato queste figure, erano come delle ombre nere, delle parche che controllano il destino di ogni personaggio: in questo invece il loro ruolo diventa chiaro. La Bene Gesserit è una sorellanza esoterica di donne in grado, grazie ad una dottrina particolare, di condizionare fisicamente e mentalmente il volere degli altri. Lady Jessica (Rebecca Ferguson) la madre di Paul, è una di loro: ella è convinta che suo figlio sia il “Kwisatz Hadeherac” un salvatore, il messia, “colui che può essere in più luoghi contemporaneamente”, che può plasmare intere dimensioni e viverle. Per molti Paul è un abominio: al fine di selezionare un patrimonio genetico perfetto, secondo un progetto segreto di selezione, Jessica avrebbe dovuto partorire una figlia femmina. I Fremen si dividono tra chi riconosce il potenziale di Paul e chi lo disconosce. La religione e la stregoneria (se così possiamo chiamarla) sono in Dune più forti delle armi stesse.
Riscrivere un mito secondo le esigenze moderne
Non c’è dubbio sul fatto che Denis Villeneuve abbia preso per mano i due attori scelti per fare i protagonisti tra i più amati e chiacchierati di Hollywood. Laddove ha saputo sfruttare un budget relativamente contenuto per un kolossal (190 milioni di dollari) per ottenere dei risultati migliori e sorprendenti rispetto ai blockbuster degli ultimi dieci anni, ha fatto una scelta furba per il casting principale: Paul Atreides è interpretato da Timotheé Chalamet e Chani è interpretata da Zendaya. Possono risultare una scelta “sbagliata”, modaiola e azzardata (che personalmente non condivido, ndr.) perché non sono in grado di portare sulle spalle un ruolo così diverso su carta, da quello che è il loro vissuto. Chani è un personaggio passivo nel romanzo, mentre Zendaya è una forza della natura, Paul è un condottiero, dotato di carisma e determinazione per quanto giovanissimo, decisamente lontano dal tipo di figura proposta dal simpatico e al contempo dolente Chalamet. Tuttavia sforzandosi di entrare in un ottica di conservazione, essendo diretto ad una nuova generazione, notando un notevole sforzo da parte del protagonista di risultare efficace (in lingua originale sembra voler buttare fuori tutta l’aria dei suoi polmoni nell’ultima parte del film) è sensata. Il film, con la sua durata di 165 minuti (quasi tre ore) viene fortemente smosso dagli effetti visivi di livello e dal comparto sonoro: il mastodontico verme delle sabbie viene preannunciato da un suono che dai realizzatori è stato spiegato così: “Inizialmente si era pensato a produrre come un rumore di insetto, non generando l’aspettativa di un verme gigantesco. Denis Villeneuve però non voleva spaventare il pubblico con il verme” prosegue: “Se il verme, viaggia tra la sabbia, deve essere vibrante: nel deserto hanno registrato le vibrazioni della sabbia a varie profondità. (…) l’idea era quella di avere un suono che ricordasse un insetto piccolo, delicato, che non dia l’idea di un “vermone” gigante e raccapricciante.” Il vero motivo per cui però la durata del film viene digerita con facilità è la colonna sonora scritta da Hans Zimmer, che ha perfino rinunciato alla sua storica collaborazione con Cristopher Nolan per dedicarsi alla stesura dei brani di Dune. Ha fatto questa scelta durante la produzione della parte uno, non se ne è pentito con la parte due dove ha rafforzato le note per incalzare il ritmo delle scene d’azione. Il compositore a dichiarato durante un intervista a The Playlist: “Dune è stato il mio libro preferito durante l’adolescenza” ha proseguito “Non ho mai visto il primo film di Dune, quindi ho un punto di vista fresco che si basa solo sul libro”. E il brano “A time of quiet between the storms” è da brividi.
Se il primo film era un lungo prologo, questo è la parte centrale: manca la conclusione e come in ogni capitolo di mezzo, questo può esser visto come un inevitabile difetto; almeno fino a quando non vedremo il progetto compiuto nella sua interezza, con la speranza di non restare delusi. Non basta a paragonarlo a Star Wars Episodio VI: L’Impero colpisce ancora, come spesso si fa con i film di genere che non hanno una conclusione e sono stretti dentro ad una trilogia, perché per quanto Dune e Star Wars siano il padre e la madre della Space Opera moderna, l’impronta del film è del tutto diversa. Siamo di fronte ad un film che ha il gusto della SciFi europea, in particolare quella francese: le illustrazioni per Dune di Moebius sono il pane quotidiano del regista. Sfogliamo un albo dai colori acri e un fumetto retrò: una intera sequenza (quella sul pianeta Giedi Primo) è in bianco e nero. Villeneuve è un regista romantico che è convinto che far sentiere i pensieri dei personaggi con degli intensi primi piani senza che le battute vengano recitate sia un espediente apprezzabile anche oggi. Ha descritto così il suo film: “La prima parte è un film contemplativo, mentre la seconda parte è un film di guerra epico e infarcito d’azione”. In definitiva Dune: parte due contribuisce ad alimentare il mito delle storia di Paul Muad’Dib Usul, non si sostituisce all’opera originale, omaggia in più di una occasione il film di Lynch e fa tornare in mente queste parole di Herbet: “Non si può capire un processo arrestandolo. La comprensione deve fluire insieme col processo, deve unirsi a esso e fluire con esso.”