Dragon’s Dogma 2 è in rotta di arrivo, sta per debuttare finalmente sul mercato. Proprio perché mancano una manciata di giorni al lancio, l’attesa si sta però facendo sempre più pesante e insopportabile. La crescente tensione ci ha spinti a cercare cinque alternative videoludiche in grado di mitigare la nostra sete di intrattenimento, pur consapevoli del fatto che nessuna soluzione potrà realmente soddisfare appieno le nostre esigenze. D’altronde, emulare il classico fantasy firmato Capcom non è cosa facile, se non altro perché le sue alchimie sono difficilmente replicabili.
Dragon’s Dogma, unico e irripetibile
In virtù della sua singolarità, il primo Dragon’s Dogma ha dimostrato di essere un prodotto decisamente fuori dagli schemi. Nel lontano 2012, ha coniugato gli elementi tipici dei giochi di ruolo medievaleggianti occidentali con la sensibilità videoludica giapponese, dando vita a un sistema di combattimento dinamico e di stampo action che ha consentito ai giocatori di affrontare creature leggendarie intavolando dinamiche corpo-a-corpo in cui era possibile inerpicarsi sul manto dei propri avversari. Si tratta di una meccanica a tratti goffa, che spesso pone i personaggi in posizioni inverosimili ed esilaranti, che mina radicalmente la serietà degli scontri, ma che regala anche momenti memorabili. Non c’è esperienza comparabile al vedere il proprio avatar muoversi lentamente tra le piume di un grifone al fine di colpire la belva lì dove è più debole o al reggersi disperatamente alle scapole di un dragone mentre questi prende quota per volare al suo nido.
Dragon’s Dogma ha inoltre introdotto una modalità multiplayer peculiare che consente ai giocatori di interagire e collaborare, pur mantenendo una certa distanza: ogni utente si crea un compagno di squadra guidato dal computer, il “pawn/pedina”, che può essere condiviso e prestato a chiunque ne faccia richiesta. Nessun gioco ha mai emulato una traiettoria tanto articolata, con il risultato che la stessa si è inevitabilmente ancorata al brand. Questo approccio “asimmetrico” alla cooperazione videoludica era all’epoca rarissimo e ancora oggi si dimostra poco comune, spesso relegato al mondo creativo nipponico. Un esempio su tutti potrebbe essere Death Stranding, il quale valorizza le azioni dei singoli giocatori riflettendole su altri gamer presenti online, ma assicurandosi che le due parti non si incrocino mai direttamente. Anche il filone dei cosiddetti soulsike hanno sviluppato modi di giocare in compagnia che non sempre sono lineari e che si appoggiano sulla condivisione di messaggi che trascendono i limiti del single player. A proposito di soulslike, tanto vale iniziare la nostra ricerca con il progenitore del genere.
Demon’s Souls
Un universo immaginario intriso di pericoli mortali, desolato e pieno di draghi, ma anche molto altro: Demon’s Souls ha fatto il suo ingresso nel mercato alcuni anni prima di Dragon’s Dogma, nel 2009, per poi ritornare in grande stile con un remake PlayStation 5. Considerato spesso come il capostipite del genere “soulslike”, il Demon’s Souls sviluppato da FromSoftware presenta nella sua edizione originale un mondo alienante dove geografie e architetture sono pervase da elementi stranianti, suscitando un senso di disorientamento amplificato ulteriormente da un sistema di controllo fluido quanto un blocco di marmo. Difficile dire se questa dissonanza estetica sia stata causata da una visione registica consapevole, da un fraintendimento culturale o da semplici limiti tecnici, ma la discreta incoerenza delle ambientazioni e un sistema di combattimento castigante riversano sull’utente la sensazione di star vivendo qualcosa di “sbagliato” e remotamente orribile, sentimento che riflette accuratamente le tematiche della trama stessa.
La reinterpretazione del 2020 ha in parte “normalizzato” alcune delle posizioni più peculiari del titolo: gli edifici sono stati rivisti per garantire un’impatto più coerente e le meccaniche di attacco sono state svecchiate al fine di renderle meno frustranti e odiose. Qualcosa si è dunque perso nella “traduzione” all’ultima generazione di console, tuttavia il risultato finale ottenuto dai tecnici che vi si sono dedicati, quelli di Bluepoint Games, è comunque notevole e rappresenta attualmente la soluzione più pratica per vivere un’esperienza di gioco che ha segnato un’epoca, ma che è altrimenti rimasta relegata alla PlayStation 3.
Elex
Piranha Bytes è una casa di sviluppo con sede in Germania che ha raggiunto la fama grazie alle serie videoludiche Gothic e Risen. Nonostante le evidenti imperfezioni progettuali, entrambe le saghe hanno conquistato una solida base di fan, testimoniando l’abilità del team nel creare mondi di gioco affascinanti e coinvolgenti. Unici, a modo loro. Le loro creazioni più recenti, Elex e il suo successore, Elex 2, continuano a incarnare l’identità distintiva dello studio, offrendo esperienze videoludiche ricche di sfumature e emozioni, ma anche di profonde sviste tecniche. Per molti versi, si tratta di titoli che in tutto e per tutto potrebbero essere considerati da molti come mediocri, se non addirittura brutti, ma scavando sotto la coltre di ciarpame è possibile rinvenire delle idee progettuali che sono intriganti e coinvolgenti.
Elex, con il suo vasto mondo aperto, il gameplay action in terza persona, le quest interconnesse progettate per adattarsi alle scelte del giocatore, un’estetica che fonde fantasy e fantascientifico e le trame politiche, è in grado di evocare quella stessa sensazione di novità e scoperta che Dragon’s Dogma ha generato al momento del suo debutto nel panorama videoludico. Anzi, sembra proprio pensato per ricreare meticolosamente e pedissequamente quelle visioni stilistiche che erano proprie ai giochi di ruolo di fine anni Duemila, rievocando sentimenti nostalgici che si rifanno a tempi certamente più grezzi, ma anche relativamente semplici. E, cosa più importante, il mondo di Elex è dotato di jetpack.
Monster Hunter World
Il mondo delineato da Capcom in Monster Hunter si distingue profondamente da quello presente in Dragon’s Dogma 2 e nel suo predecessore; tuttavia, i due marchi condividono alcune similitudini, in particolare la presenza di creature leggendarie e la possibilità offerta ai giocatori di affrontarle saltando loro in groppa. Benché la connessione tra i due possa apparire tenue, è innegabile che giochi di alta qualità che presentano questo elemento di gameplay siano relativamente limitati, quindi bisogna necessariamente adattarsi come si può. E, in ogni caso, saltare in groppa a un viverna per randellarla a colpi di spada è sempre e comunque un’esperienza raccomandabile, almeno sul frangente videoludico.
Monster Hunter World non è un esemplare topico del brand, anzi è una mosca bianca, tuttavia proprio nel suo essere un’anomalia si dimostra il titolo più accessibile e coinvolgente dell’intera saga, è in grado di catturare l’attenzione anche dei neofiti senza richiedere eccessive spiegazioni. Inoltre, si presta ad uno stile di gioco meno impegnativo rispetto a tutti i suoi simili, i quali tendono ad adottare un approccio più criptico e macchinoso. La presenza di alcune preziose “lucciole guida” semplifica la possibilità di seguire le tracce dei mostri cacciati, mentre l’alta fedeltà grafica consente con maggior naturalezza di notare indizi relativi ai movimenti della propria preda, allo stato di salute della stessa e alle sezioni paesaggistiche che è possibile sfruttare contro i propri avversari. Detto questo, tutti i Monster Hunter sono degni di essere vissuti, ancor più se avete a disposizione un gruppo di amici veterani con cui far gruppo.
Kingdom Come Deliverance
Se siete appassionati dell’estetica medievale, della sfida elevata e dei mondi di gioco che richiedono lunghe esplorazioni nei boschi, allora Kingdom Come Deliverance fa decisamente per voi! Questo videogioco, sviluppato dal gruppo ceco Warhorse Studios, rappresenta un’offerta sorprendente e distintiva all’interno del panorama videoludico attuale. Al contrario di molti altri videogame che si concentrano su ambientazioni high-fantasy straordinarie, l’approccio progettuale di Kingdom Come Deliverance mira a ricreare in modo verosimile il contesto storico della Boemia del XV secolo, includendo tutti i fastidi e le limitazioni previste dall’approccio “simulativo”. Pur mantenendo alcuni elementi di gioco in stile arcade, Kingdom Come Deliverance richiede un impegno significativo da parte del giocatore e presenta una curva di apprendimento iniziale che potrebbe scoraggiare i meno esperti.
Il protagonista, Henry, non è un combattente, è il figlio di un fabbro che si trova a dover imbracciare le armi dopo che il suo villaggio è stato raso al suolo e i suoi cari trucidati. Le sue abilità di lotta e di caccia sono pressoché nulle e devono essere raffinate eseguendo massicce dosi di addestramento. Nelle fasi iniziali del gioco, sopravvivere è estenuante. L’open world è tremendamente ostile e non è affatto raro finire vittima di un agguato perpetrato da banditi desiderosi di bottino, contesto che si traduce spesso e volentieri in precoci game over. Superate le prime avversità, tuttavia, si inizia a sviluppare nei confronti di Kingdom Come Deliverance una morbosa relazione di amore in cui si finisce per apprezzarne tutti i tratti, compresi quelli più scorbutici.
The Thing
Il celebre film di John Carpenter, La Cosa, prodotto all’inizio degli anni Ottanta, ha evidenziato la possibilità che un remake possa eccellere al punto da adombrare del tutto il suo predecessore. Successivamente, nel 2002, il videogioco The Thing sviluppato da Computer Artworks ha illustrato a sua volta che l’adattamento videoludico di un film può generare un prodotto di valore, il tutto in barba alle circostanze avverse. Pur avendo ricevuto un riconoscimento positivo dalla critica, gli sviluppatori hanno infatti dovuto chiudere bottega appena un anno dopo il lancio del gioco, il quale non è mai stato oggetto di redistribuzione o rimasterizzazione. Chi ha avuto modo di vivere The Thing all’epoca del lancio saprà però che il gioco era dotato di una gestione dei personaggi non giocanti più unica che rara, la quale costituisce il principale punto di contatto con una delle tematiche che colleghiamo anche a Dragon’s Dogma, quella dei già menzionati pawn. Nel tentativo di ricreare l’atmosfera di paranoia delineata nel lavoro di Carpenter, gli sviluppatori di The Thing hanno infatti progettato un sistema che costringe i giocatori a instaurare rapporti di fiducia con i loro compagni virtuali al fine di ottenere la loro piena collaborazione. Questa dinamica di gruppo si integra armoniosamente con la filosofia del titolo Capcom e ne approfondisce le alchimie degenerandole in un perverso meccanismo dalle tinte horror.