La dissonanza ludonarrativa è il fenomeno che si verifica quando il personaggio del nostro videogioco preferito compie azioni in contrasto con la narrazione della trama. Più o meno. Ho deciso di semplificare il concetto il più possibile, e di scriverlo in apertura del pezzo per rendere più chiaro possibile il resto del testo che mi accingo a redigere. “Eh ma se la principessa Zelda aspetta da mille anni l’arrivo di Link lui perchè perde tempo a cercare le cacchine dei Korogu?”. Risposta: dissonanza ludonarrativa. “Come mai nel primo reboot di Tomb Raider Lara Croft, tanto restia a uccidere, tanto pura e dolce, appena ha in mano un arco e una pistola compie un’ecatombe degna dei migliori film di Tarantino?”. Risposta: dissonanza ludonarrativa. Potrei farvi altri esempi, ma credo abbiate colto il concetto: se le azioni che il gameplay di un videogioco ci permette di compiere non sono coerenti con quelle che il personaggio che interpretiamo compirebbe se non fossimo noi a comandarlo, si verifica la fantomatica dissonanza ludonarrativa. Ma nel titolo dell’articolo c’è scritto: Returnal e la dissonanza ludonarrativa.
Chi conosce il nuovissimo rogue-lite di Housemarque, forse, ha già capito dove intendo arrivare. Perchè se c’è un punto sul quale credo possiamo essere d’accordo, è che l’ottimo videogioco esclusiva PS5 compie ben poche leggerezze sul terreno della dissonanza ludonarrativa. E ci consegna una trama misteriosa, stratificata, semplice, ma efficace. Con una protagonista che sa quel che fa, e non ci fa fare niente più di ciò che lei stessa farebbe se potesse controllarsi da sola.
Returnal e la dissonanza ludonarrativa, merito del genere?
A scanso di equivoci (di questi tempi…) parlo del genere videoludico, non di quello della protagonista, Selene. Nello specifico del genere Rogue-lite, di cui Returnal è forse il primo vero esponente tripla A. La differenza tra Rogue-like e Rogue-lite è presto detta: il primo segue canoni estremamente precisi riguardo lo stile della visuale, l’approccio ai nemici, ai livelli e ai Boss. Mentre il secondo è lievemente più permissivo sotto certi aspetti, e più punitivo con altri. The Binding of Isaac, per intenderci, è il perfetto Rogue-like. Il protagonista esplora un piano alla volta di una torre ideale, potenziandosi con oggetti rinvenuti casualmente, nelle stanze generate casualmente e assemblate casualmente ad ogni nuova run. Sconfiggiamo un boss per piano, e possiamo così scendere in quello successivo, e continuare finchè non moriamo. Una volta sconfitti, ripartiamo dall’inizio, senza conservare nessuno dei potenziamenti accumulati in precedenza. Returnal, invece, è il perfetto Rogue-lite. Simile la struttura a piani casuali, con nemici casuali e potenziamenti casuali. Ma alcuni dei power up che otteniamo, e determinate scorciatoie tra piani si conservano tra una run e la successiva, per rendere più agevole l’esplorazione e il completamento del gioco. Non lasciatevi ingannare però: i Rogue-lite non sono sempre più semplici dei loro fratelli Rogue-like. Infatti, come accade in Returnal, la semplificazione dell’esplorazione e i potenziamenti sbloccabili permanentemente sono controbilanciati da una difficoltà aumentata di alcuni scontri, soprattutto quelli con i Boss. Come a dire “puoi arrivare prima da A a B, ma poi in B morirai molte più volte di quante ti aspetteresti.”.Â
Chiarito questo punto, torniamo all’oggetto del pezzo: la dissonanza ludonarrativa. Innegabilmente, infatti, Returnal in quanto Rogue-lite spiega la sequenza di run che il gioco ci impone ad ogni morte con un espediente narrativo ben congeniato, e coerente con la trama principale. Selene, la nostra protagonista, è infatti naufragata con la sua nave spaziale su un pianeta ostile, che la tiene avvinta in un loop temporale. Ogni volta che Selene muore nel labirinto confezionato da una razza aliena ormai in declino, rinasce presso il luogo dello schianto della sua navicella. Perchè? Tecnologia aliena. Come? dispositivi che copiano la materia e sono in gradi di riprodurla identica. Semplice, efficace. Un chiaro esempio di come la dissonanza ludonarrativa si risolve in primis con un set di regole interne al gioco che devono confermarsi coerenti con loro stesse per tutto lo svolgimento della storia. Regole che possono evolversi, certo, ma che non devono mai complicarsi inutilmente alla ricerca di un non richiesto realismo intrinseco. Non mi interessa se i macchinari alieni copiano Selene sfruttando i midiclorian o la bacchetta magica della fata turchina: la copiano, e tanto mi basta. Pertanto, è evidente che la prima e principale ragione della mancanza di dissonanza ludonarrativa in Returnal è l’abilità dei developer e sceneggiatori di proporre, attraverso un genere semplice, un concetto complesso semplificato all’osso, e volutamente non vivisezionato in ogni sua minima componente.
“Il tempo è distorto”
La citazione è comprensibile solo ai fan di un genere ben definito: quello dei Souls. E l’esempio è calzante per più di un motivo. Non c’è, infatti, caso più discusso di dissonanza ludonarrativa di quella riscontrata nei vari Dark Souls. Il protagonista incaricato di attraversare le aree di gioco affrontando innumerevoli nemici e Boss è infatti invischiato contemporaneamente in una trama (quella semplice, sei un non morto prescelto, devi vincolare la fiamma, blabla), in una lore (centinaia di migliaia di anni di storia che spiegano perchè il nostro non morto sia il prescelto ecc.) e, infine, in un gameplay strettamente correlato a entrambe. Ogni volta che moriamo, infatti, ricominciamo dall’ultimo falò al quale abbiamo riposato, i nemici sconfitti riappaiono, e dobbiamo ri-affrontarli da capo. A complicare il tutto ci si mette anche il multiplayer asincrono, grazie al quale possiamo vedere i fantasmi dei giocatori morti nelle varie zone, o aiutarli sotto forma di fantasmi nei loro mondi… che sono identici al nostro, ma non sono il nostro. Multiverso? No, molto meglio: il tempo è “distorto”. O “stagnante”, se preferite l’ultimo aggiornamento sulla questione emerso appena qualche mese fa. La dissonanza ludonarrativa, quindi, si risolve nei Souls con una spiegazione relegata alla descrizione di un oggetto specifico, che cita, attraverso la frase che fa da titolo al paragrafo, quanto il tempo nella realtà ludica non scorra regolarmente; ingenerando il ciclo di morti e rinascite del protagonista, la ricomparsa dei mostri nemici, ecc.
La differenza con Returnal è chiara, ma solo per chi la vorrà intendere al di là di sterili fanboyismi. Nessuno, infatti, in questa sede vuole paragonare la qualità dei due titoli/generi e le scelte operate per risolvere la questione della dissonanza. Che, va detto, non è obbligatoriamente un problema da sciogliere, e può benissimo coesistere con la trama (non sempre, ma spesso, dipende dal titolo). Infatti, in Dark Souls l’impianto ludico e quello narrativo viaggiano su binari distinti, intrecciati grazie alla buona volontà di giocatori desiderosi di capirne di più, al punto da immergersi nella lore a piè pari, descrizione dopo descrizione. In Returnal, invece, non esistono due binari: l’impianto ludico e quello narrativo fanno parte di un unico flusso di coscienza che fin dall’inizio rende chiare al giocatore le regole di un mondo diverso dal nostro. Misterioso, sì, ma non nebuloso. Distorto, sì, stagnante, pure, ma mai dubbioso sul rapporto causa-effetto, e sul rapporto “azione del giocatore-azione del personaggio”. La replica che mi aspetto, e quella che io stesso mi muovo, è che Dark Souls nasconde un impianto più complesso, stratificato e strutturato di Returnal. Ma la replica alla replica che muovo, nuovamente anche a me stesso eh, è che semplicemente Returnal è nato con una direzione più chiara e decisa. Più moderna probabilmente, e con alle spalle il colosso Sony, le sue sovvenzioni e una console dalle potenzialità ancora tutte da sfruttare.
La dissonanza ludonarrativa è un male da debellare?
Ai posteri l’ardua sentenza che fa da titolo a questa chiosa. Di certo c’è solo che la dissonanza ludonarrativa, può essere controllata, marginale; persino giustificata come tale da developer che affermano di considerare gameplay e storia disconnessi. Come nel caso di Overwatch: perchè mai membri dello stesso team dovrebbero fare squadra con i loro nemici e darsi battaglia in delle arene? Perchè sì, dicono in quel di Blizzard. Perchè la storia e il gioco da cui è tratta vanno presi come entità singolari e che non si toccano se non marginalmente. E va bene così. Siamo abituati a titoli sempre più story driven, a realtà videoludiche che tentano di emulare, e a volte addirittura superano, il genere cinematografico. Ma non per questo dobnbiamo per forza dimenticare di star affrontando un’esperienza ibrida che, per sua natura, non sempre può e deve giustificare ogni scelta ludica con una motivazione narrativa. Laddove il genere, la storia, i personaggi e gli intenti con cui un videogioco nasce lo consentono, però, è sempre piacevole riscontrare una coerenza ludonarrativa. Ma la ricerca spasmodica di quest’ultima può sfociare talvolta in casi di dissonanza ancor più marcati di quanto sarebbero stati se “lasciati stare” a loro stessi.
E così, Mario salva la principessa da un indefesso Bowser che cerca di sposarla da più di trent’anni; ma ogni volta che riesce aspetta paziente il pellegrinaggio dell’idraulico baffuto attraverso 8 e più mondi di gioco, per poi cadere in una delle sue stesse trappole di lava. Prima di uno scontro difficile incontreremo sempre stanze piene di munizioni, cure e punti di salvataggio convenientissimi; e Tom Nook può costruire un paradiso fiscale senza regole su un’isola deserta abitata da animali senzienti e un unico, sperduto essere umano pagante. Ces’t la vie. Analizzare con il microscopio oggi va di moda, ahimè. ma forse, forse, a volte sarebbe meglio lasciare le strumentazioni mediche a chi ne ha davvero bisogno. E concentrarsi sulle molteplici qualità del genere videoludico, senza per forza di cose costringerlo in dei cassetti che non sono nati per contenere le sue infinite sfaccettature e poliedricità .Â
https://www.youtube.com/watch?v=k4nSLa8a588
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