Gamer: i 5 luoghi comuni da sfatare

Certi luoghi comuni sono duri a decedere, lo sappiamo. A tutti gli anziani piace andare a guardare i cantieri, il rosa è un colore esclusivamente femminile, e, perché no, ai miei tempi i videogiochi costavano di meno. Posto che in alcuni casi un fondo di verità c’è sempre (più invecchio più vedere una ruspa in funzione mi fa emozionare). Oggi la mia intenzione è sfatare 5 luoghi comuni da Gamer fin troppo condivisi sui social; specialmente adesso che ci troviamo in un momento di transizione tra una generazione di console e un’altra. Mettetevi comodi, appoggiate il bastone da passeggio vicino alla poltrona, e aggiustate i cuscini lombari: iniziamo!

Gamer: Ai miei tempi, le console e i giochi costavano di meno

Un classico: ai miei tempi le console e i videogiochi costavano di meno. Eviterò di commentare chi, a supporto di tale ipotesi, cita improbabili acquisti clandestini al banchetto sotto casa. I giochi masterizzati e piratati illegalmente per PS1 costavano di meno di quelli originali, su cui si pagavano tasse e una minima garanzia di funzionamento. Chi l’avrebbe mai detto! Una parte del fandom videoludico, però, è comunque convinta che “ai suoi tempi” i videogame costassero meno di oggi. La prova? I titoli PS5 costano fino a 80 euro. Per non parlare delle console, che “con 500 Euro portavo a casa due Play Station 1.” dicono. Lungi da me iniziare un trattato di economia: semplicemente, mi limiterò a dirvi che ogni oggetto acquistato nel passato ha un costo che si riferisce a diversi fattori, appunto, relegati all’economia del periodo storico in cui si è portato a termine l’acquisto. Tramite calcoli nemmeno troppo complessi si può “attualizzare” il costo delle console e dei giochi che acquistavamo da giovani virgulti. E scoprire, ad esempio, che il costo di una PS1 attualizzato all’inflazione odierna sarebbe di circa 450 Euro; non più i 300 Euro originali (prezzo convertito dalle lire, quindi si dovrebbe fare ancora un ulteriore discorso di attualizzazione… ma soprassediamo).

Similmente si può calcolare quanto avremmo pagato i videogame che “un tempo costavano 40 Euro”. In questo caso, però, va fatta una disambiguazione: il costo dei singoli titoli è davvero cresciuto. Ma con il prezzo sono cresciute le ambizioni dei developer, il numero di dipendenti a lavoro su ogni area del videogame, e via dicendo. In breve? I tripla A costano, e i developer meritano di essere pagati per il loro lavoro, sempre più complesso e tecnico.

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Gamer: Ai miei tempi, tutti i giochi erano belli

Sorrido, leggendo spessissimo questa affermazione nei più disparati gruppi delle ammiraglie Sony, Microsoft e Nintendo. “Quando ero piccolo tutti i giochi erano bellissimi, senza bug… perfetti”. Sicuro? La maggior parte dei lettori e dei fruitori della attuale e futura generazione probabilmente (compreso il sottoscritto) non era presente quando il gioco di E.T. fu rilasciato, rimase invenduto, e fu seppellito nel deserto per nascondere un altrimenti disastroso tracollo finanziario per Atari. Correva l’anno 1982, l’alba dei videogiochi, ed E.T era solo uno degli innumerevoli esperimenti falliti, pieno di bug, vicoli ciechi, zero divertimento per il player. Non crediate che ora mi metta a elencare ogni videogioco brutto appartenente al passato: sono troppi. Quanti? Più o meno nella stessa percentuale con la quale vediamo oggi pessimi titoli, e capolavori. La differenza, allora dove sta? Facile, nell’osservatore: in noi. La nostalgia, maledetta, è una lente deformante capace di farci apprezzare persino il gioco su licenza di Action man per Game Boy Color (bellissimo, ma bruttissimo, ai limiti dell’ingiocabile). Prova del nove: prendete alcuni titoli della vostra generazione, ma non quelli che avete giocato e rigiocato da piccoli perché “avevate solo quelli”. Sceglietene altri a caso, tanto erano “tutti” belli allora: non potete sbagliare.

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Ai miei tempi, i giochi erano più difficili

Da quando Dark Souls ha fatto riscoprire alla massa il piacere di farsi mettere sottosopra e “rotocalciare” come nemmeno il miglior Chuck Norris, il tema “difficoltà nei videogiochi” è tornato rilevante come mai prima d’ora. “I videogiochi che giocavo quando ero piccolo erano difficilissimi… impossibili!” gridano indignati alcuni, che oggi si sentono offesi dalla difficoltà selezionabile. Mi dispiace, ma a meno che non foste assidui player di Ghost and Goblins (in quel caso mi inchino), l’unica difficoltà che incontravate giocando era quella di non comprendere appieno le meccaniche (da bambini capita).

Indubbiamente, va detto, i giochi di oggi vengono incontro alle necessità di un pubblico notevolmente ampliato rispetto al passato. Pertanto, tutorial, curve di difficoltà più dolci e, in generale, una semplificazione nel gameplay di giochi destinati “alla massa” sono evidenti. Vabbè, diciamo che questo mito lo sfatiamo a metà. I giochi moderni più che facili devono essere “accessibili” a tutti, dalla nonnina al pro-player. Qualche compromesso, pertanto, spesso è inevitabile.

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Eh, ai miei tempi, la critica era meno di parte

Tutti i siti sono venduti, falsi, andate a fare un lavoro vero” tuonano le malelingue dai loro account social ogni volta che i voti di un gioco non rispecchiano il loro metro di giudizio. Spesso aggiungendo che quando loro giocavano da piccoli non importavano voti e recensioni, e la critica, se c’era, era meno di parte di oggi. “C’erano meno interessi dietro” chiosano. Non sapendo che, in effetti, la critica videoludica del passato, quando c’era, era solo di parte. Rivista ufficiale Nintendo, Sony, giochi per il mio Computer e via dicendo, a chi credete rendessero conto? Ai publisher che, in tempi pre-internet, dovevano sudare sette camice per spedire fisicamente copie di giochi e console da recensire e su cui scrivere. Attenzione però, questo non significa che tutte le recensioni del passato fossero pilotate dalla mano invisibile dei publisher: non è così. Come accade oggi, e sempre accadrà, c’era chi cedeva alle lusinghe, e magari alzava quel voto di un punto o due. Ma la maggioranza, professionalmente, non si piegava, e non si piega tutt’ora.

Aggiungo che un brutto voto al vostro titolo preferito non lo trasforma in un titolo ingiocabile: è un’opinione. C’è chi non riesce a passare più di 10 minuti in Breath of the Wild, pensate un po’. E andate a leggere le recensioni su Metacritic del meraviglioso The Last of Us Parte II… ecco. Ai posteri l’ardua sentenza.

Ai miei tempi, i videogiochi erano meno violenti

L’ultimo tema di cui discutiamo è particolarmente rilevante nel panorama del videogioco moderno: la violenza. “Quando eravamo piccoli giocavamo a Super Mario ed eravamo felici, oggi i giochi sono tutti violenti, GTA, CoD, Battlefield, censuriamo tutto!” esclamano i genitori che i suddetti giochi li acquistano spesso a scatola chiusa, senza curarsi del PEGI; per non sentire i capricci del figlio di turno. Sappiamo bene che i media generalisti hanno preso a cuore da anni il legame fra violenza e videogame, ma non intendo parlarne in questa sede. Piuttosto, vorrei soffermarmi sulla lente deformante della soggettività, che fa dimenticare, evidentemente, ai più l’esistenza di giochi violentissimi, pur se datati: Mortal Kombat, di Carmageddon, di DOOM. Non esattamente videogame usciti ieri. Semmai, la differenza evidente è che l’avanzamento tecnologico ha reso più realistica ed evidente la violenza nei videogiochi; tanto da renderla spesso indistinguibile dalla realtà per un pubblico più sensibile… che dovrebbe starne alla larga comunque. Se una testa salta via dal collo, che sia composta da 32 pixel o da un modello 3D con texture in 4k, un bambino potrebbe restarne ugualmente impressionato. 

Volenti o nolenti, insomma, la “violenza” è dall’alba del videogioco il sistema di interazione più facile fra giocatore e gioco, il più immediato e comprensibile senza troppe spiegazioni. “Gioco, quindi colpisco” era il motto dei giochi del passato. Esempi più virtuosi, che stanno sempre più negando questo vincolo apparentemente inscindibile oggi esistono. Ma appunto, non venitemi a dire che i videogiochi moderni sono più violenti che in passato: casomai è vero il contrario. Lo sviluppo di alternative alla violenza come interfaccia fra utente ed esperienza multimediale, infatti, è una sperimentazione perlopiù attuale.

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