Evoland – L’audacia di chi dal passato ha imparato davvero

Sono molto indecisa su come impostare questo articolo. Sapete, non si tratta della classica recensione o della solita Top 10. È qualcosa di molto di più. Perché oggi devo parlare di qualcosa di più. Evoland. Ve lo ricordate? Quel bel giochino che uscì per mobile nel 2013 e che piacque a tutti perché aveva tutto. E non sto scherzando. Aveva proprio tutto quello che ti potresti aspettare da un videogioco. Questo perché non era, e tutt’ora non è, il classico titolo che acquisti perché ha i personaggi carini o perché è un FPS fighissimo di ultima generazione. No, non è questa la sua peculiarità. Voglio spiegarmi meglio, perciò farò una domanda: qual è il vostro videogame preferito? Decidete senza pensare o mettetevi a centellinare ogni singolo 1% per dare la risposta finale, non importa. Perché Evoland sarà quello che deciderete. Qualsiasi, non ci sono eccezioni. Proprio come quella meravigliosa donna pirandelliana che disse “Io sono quel che mi si crede di essere” (Così è se vi pare). È questo che distingue e allo stesso tempo fortifica l’essenza polimorfe di questo piccolo gioiellino firmato Shiro Games. Sfido chiunque a non innamorarsi di uno, o tutti fate voi, dei livelli che stratificano l’esperienza. Mentre lo si gioca ci sono così tanti riferimenti e citazioni da star vivendo, in prima persona, un vero e proprio libro interattivo. Una storia che ripercorre la storia, perdonate il “gioco” di parole. E, per questo motivo, dopo esserci stato concesso di provare la Legendary Edition per PlayStation 4, che sono qui a parlarne. Perché Evoland, sia il primo che il secondo, merita di essere raccontato, studiato e approfondito. E, cosa più importante, vissuto.

Uno sguardo al passato

Dagli albori, ormai si può dire, ci è sempre stato inculcato, in quella bella testolina da bambino, che i videogiochi sono, per l’appunto, un mero svago. Un media che può solo piacere a chi di tempo ne ha tanto da perdere e che quindi si rilega a qualcosa che da adulto, vuoi o non vuoi, devi abbandonare. Ma non dimentichiamoci che il videogioco non era nato per intrattenere i ragazzini a casa e fargli raggiungere il punteggio più alto per vincere. Era stato creato da alcuni studenti universitari, giovani menti che con ingegno e volontà volevano sperimentare quello che stavano studiando. Il videogame non è mai stato materia semplice. È un complesso agglomerato di codici letti da un computer, una macchina pensante che ai tempi veniva utilizzata unicamente per fare calcoli complicati e per lavorare. Quindi, nasce dall’ammiraglia avanguardistica di quelli che erano gli anni ‘50 e ‘60. Anni fatti di scoperte, incertezze e sorprese dietro a ogni angolo. E il videogioco non era da meno. Certo, siamo partiti da schermi neri e pixel zigrinati che necessitavano di un’evoluzione e ne palesavano un avvento neanche troppo remoto o impossibile. Da lì, da quella manciata di giovinastri poco più cresciuti ma intraprendenti, è nato qualcosa del genere. Vi pregherei di tenere a mente le tre parole usate in precedenza perché ci torneremo in seguito.

Evoland

Uno sguardo al presente

Cosa successe poi? Beh, il resto è storia. Una storia che, paradossalmente, neanche è troppo lontana dalla nostra generazione attuale. Ma ne sono passati di pixel sotto alle impalcature di Donkey Kong, prima che il videogioco iniziasse a ricevere quel minimo di attenzione e credibilità che oggi fatichiamo ancora a mantenere a galla. Io sfortunatamente, o per vostra fortuna, non sono qui per farvi la paternale e raccontare nei dettagli la “storia infinita”, ci sono libri, saggi e manuali appositamente stilati per questo. Io sono qui per altro. Quindi, dopo quella piccola introduzione che vi ho lasciato sopra, è tempo di arrivare al nocciolo della questione. Partiamo immediatamente con lo spiegare perché ho messo come titolo “L’audacia di chi dal passato ha imparato davvero”. Ho deciso di scrivere proprio questa frase per un semplice motivo: Evoland è un tributo ai tempi passati. Una lettera d’amore inviata a un periodo che non può tornare ma da cui possiamo ancora imparare, e parecchio aggiungerei. L’incipit del gioco è semplice ma la profondità di ogni sua sfaccettatura, citazione e struttura raggiunge livelli davvero alti, persino per oggi.

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Il giusto ingrediente

Evoland è nato da un’idea, ben articolata ma non troppo pretenziosa, che al rilascio gli ha permesso di ricevere il giusto abbraccio da parte del pubblico. Un pubblico di persone pigre e vogliose di qualcosa di nuovo, ma non troppo. Perché c’è gente che ancora gioca con il Game Boy, secondo voi? Per i ricordi? Perché sono i classici haters delle nuove piattaforme? Può essere, ma vi dico anche un’altra possibilità: il livello di game design raggiunto da quei titoli pixellosi a 8 o 16 bit, noi ce lo sogniamo adesso. È difficile da ammettere per le ultime generazioni che non hanno avuto modo di poterli provare, ma è la verità. Ci sono pochi esempi ormai di videogiochi che tutt’oggi riescono a strutturare e costruire un level design ad hoc, che possa garantire persino un backtraking avvincente e mai noioso. Ed ecco qui che torniamo al discorso di prima, alle tre parole che vi avevo elencato: scoperte, incertezze e sorprese. Potremmo pensare a loro come a degli ingredienti vitali per non far uscire il piatto, che sarebbe il nostro gioco, troppo insipido o troppo saporito. In pratica potreste chiamarli olio, sale e pepe. Ora, non vorrei iniziare a parlare di cucina per non far venire fame a nessuno, ma una bella carbonara, o aglio olio e peperoncino, oppure ancora un’amatriciana, non si fanno da sole. Ci vuole amore e passione nella cucina, così come in tutto il resto. Alcune professioni poi, quelle che si avvicinano di più al lato artistico e a quella parte del nostro laborioso cervello chiamata “emisfero destro”, necessitano di maggiori emozioni per riuscire come si deve. Questo non significa però che possiamo esagerare. Come per la creazione di un buon piatto, anche nella lavorazione a un videogioco bisogna essere minuziosi e delicati, abbondanti ma anche umili, passionali e allo stesso tempo razionali. E, senza girarci troppo attorno, Evoland ci era riuscito.

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Il tesoro: la ricompensa perfetta 

Il tesoro. Ce lo abbiamo in mente forse dal primo Zelda, o giù di lì. Vi ricordate quanto era bello aprire quei forzieri fatti di legno e contornati di oro che regalavano sempre sorprese? Ah! Ecco qui la prima parola. La sorpresa è un’emozione davvero forte e importante. Genera interesse ed è spinta dalla scoperta e dall’incertezza. Scoperta dell’ignoto, di qualcosa che sì, potrebbe piacerci, ma in realtà ancora non lo sappiamo. Il rischio ne vale la candela? Dark Souls ci insegna che non sempre è così, ma negli anni ‘80 bisognava intanto fare un passo avanti e l’incertezza non si basava sulle paure che Hidetaka Miyazaki non aveva ancora sfiorato né rivoluzionato. È servito partire dall’esistenza di una ricompensa in un baule per creare la voglia di aprirli tutti e poi schiaffeggiare il giocatore quando ormai “il tesoro” era visto come un amico di cui ci si può fidare. Solo arrivati a quel punto si poteva ribaltare la situazione. Ora, questo non è il caso di Evoland. Qui non avrete nessun mostro con i denti aguzzi a mangiarvi la faccia se aprite il baule dei vostri sogni, ma ha un significato molto importante ai fini del game design. Come veramente dovrebbe essere. E il tesoro si lega magistralmente all’altro capostipite del gioco: l’evoluzione. Nella prima schermata di gioco, infatti, partiamo con solo un’azione da poter compiere. Due semplici movimenti verso altrettanti forzieri da dover aprire. E la voglia di sapere cosa c’è dentro è tanta, nonostante nessuno ci obblighi a farlo. Con un’interfaccia grezza formata solo da pixel a 8-bit, niente musica e con lo schermo ridotto, in Evoland tutto gira intorno alla ricompensa. A quel tesoro che ti garantisce, ogni volta, qualche aggiunta o miglioria all’HUD, ripercorrendo anni e titoli con un semplice click. Inoltre, è possibile trovare anche collezionabili come Stelle o Carte per un minigioco, e persino trappole se siamo sfortunati. Quindi, centrando in pieno uno dei nostri istinti primordiali, Evoland ci sfida a essere curiosi e ad andare avanti.

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Potrei continuare a parlare per ore di Evoland senza mai stancarmi, ma questo porterebbe solo alla stesura di un lungo e interminabile articolo che, per prima cosa non leggerebbe nessuno e, secondo, c’è un povero correttore di bozze a garantirvi che sia leggibile quando verrà pubblicato. Quindi no, mi fermo qui. Volevo solo aggiungere che, se ancora non lo avete provato o se, come me, avete avuto qualche problema per la versione mobile, è giunto il momento di goderselo con uno schermo più grande, un pad più comodo del dito e un divano con patatine e bibita di lato. Evoland è un’esperienza che ripercorre la storia, ne impara le dinamiche e le mette in pratica, sfonda la quarta parete con dei piccoli messaggi lasciati dagli sviluppatori tramite un “narratore” che commenta ogni nostro upgrade, è una citazione vivente a tutta la cultura videoludica e non, e ci lascia persino l’amaro in bocca quando andiamo “troppo avanti” o ci “evolviamo troppo”. Proprio come quando, da bambini, ci accorgiamo di star crescendo e iniziamo a sentire quella nostalgia con un pizzico di maturità e tristezza in più. Perché gioca, magistralmente, con le nostre emozioni, sfiorandole con la stessa delicatezza con cui è stato pubblicato sugli store anni fa. Senza dare fastidio, resta lì. In attesa di qualcuno che voglia di nuovo rispolverare la storia del videogioco.

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