The Grudge | Avete presente quel momento, in OGNI storia di paura, in cui i protagonisti stanno per prendere una decisione che li porterà a morte certa e voi urlate silenziosamente dal vostro posto di spettatore, cercando di avvertirli di non aprire quella porta o di guardarsi alle spalle? Questa sensazione è esattamente ciò che si prova in The Grudge, il reboot della celebre saga horror giapponese che uscirà nelle sale il 27 febbraio. Tuttavia, in questo caso, il vostro obiettivo non è salvare la pelle alle sfortunate vittime della pellicola, ma ricordare loro di prendere l’ombrello quando fuori piove. Ritorneremo su questa metafora molto criptica, dato che riassume perfettamente il contenuto del film, che ancora una volta dimostra la necessità per il cinema dell’orrore di staccarsi dai soliti e ripetuti canoni e cercare qualcosa di nuovo. In breve, a questo racconto mancano gli elementi che contraddistinguono sia un buon horror che un buon The Grudge, tra cui la presenza della sua icona. Non tutto è da buttare però, dato che l’impegno del cast e certe acrobazie narrative riescono a regalare qualche soddisfazione. Senza ulteriori indugi, addentriamoci in questa recensione.
La premessa della trama è la solita, sempre fedele al franchise: una casa diventa la dimora di una maledizione, che poco a poco consuma chiunque varca l’ingresso dell’edificio fino a condurlo ad un’orribile morte. L’origine di questo male non viene spiegata più di così, ma d’altronde non servono né sono necessari ulteriori dettagli. Il film ci racconta la storia della giovane detective Muldoon (Andrea Riseborough), che dopo essersi trasferita in Pennsylvania inizia ad investigare su una misteriosa serie di morti. L’indagine fa da filo conduttore mentre scopriamo il destino di tre gruppi di vittime, le cui vicende si intrecciano per dare vita ad una narrazione non lineare – la stessa struttura dei predecessori. L’iniziale frammentazione temporale degli eventi viene così lentamente ricostruita dalla protagonista in uno scenario che, tutto sommato, risulta intrigante e ben costruito. Fin dai primi minuti ci vengono mostrati degli avvenimenti e dei dettagli che acquisiscono senso man mano che la trama prosegue, giungendo ad un climax per lo meno soddisfacente. Il tutto però crolla velocemente nel finale e dimostra che il genere non è ancora riuscito ad abbandonare i suoi ormai prevedibili e noiosi cliché. Per quanto dunque la componente thriller sia meritevole di qualche lode, la sua controparte horror lascia molto a desiderare.
“Questo reboot non sarà di certo ricordato nella storia del cinema, ma ha dimostrato di possedere delle qualità che, se sfruttate bene, potrebbero decisamente giovare al suo futuro.”
BOO! Vi abbiamo spaventato? Certo che no, ma probabilmente non vi aspettavate di leggere un passaggio di questo tipo in una recensione. Ciò che è appena successo è una perfetta analogia di ciò che The Grudge reputa essere “pauroso”, e che rappresenta il suo principale punto debole. Sebbene efficaci nelle prime battute, il film fa un uso eccessivo di jumpscare e spende poco tempo a generare tensione nello spettatore, rendendo ogni sgomento sempre più prevedibile fino a giungere alla totale piattezza. Tutto il terrore è basato su rumori forti e improvvisi, preceduti da silenzi innaturali e semplici da riconoscere, e su effetti grafici eccessivamente banali. Chiunque abbia visto qualunque altra pellicola dello stesso genere sa bene o male cosa aspettarsi, ed è capitato più volte in sala di udire risate invece che sussulti. Esattamente come la nostra infelice onomatopea ad inizio paragrafo, inserire qualcosa di forte e inaspettato in un ambiente apparente calmo e “troppo tranquillo”, senza prima costruire un’adeguata atmosfera intorno allo spavento, è il metodo meno efficace di realizzare un’opera dell’orrore. Ormai il pubblico è abituato a certe tecniche e le sa identificare al volo. Il cinema horror ha bisogno di un rinnovamento, di una spolverata di originalità che questo racconto non ha saputo dare, e perciò ne risulta penalizzato.
Un altro elemento negativo di The Grudge è la sua mal controllata fedeltà ai predecessori. Nello scegliere cosa attingere dai precedenti capitoli e cosa invece cercare di rimodernare, è chiaro che gli sceneggiatori abbiano mancato il segno. Molte vicende sono concettualmente quasi identiche al prequel, il Ju-On del 2004, che a sua volta era già un remake dell’originale del 2002. La trama presenta scenari simili e non approfondisce in alcun modo la natura della maledizione o il suo funzionamento. Il risultato è un finale vuoto, un “nulla di fatto” che va a rimpicciolire e privare di significato le azioni dei personaggi, un colpo di scena che forse sarebbe stato meglio non avere. Tutto questo è un peccato, perché il cast azzeccato e la scrittura curata degli intrecci e delle interazioni avrebbero giovato di un focus più mirato al genere thriller, sfruttando la maledizione come cuore pulsante del mistero e non come mezzo ultimo di paura e chiusura della storia. Il “male” viene invece posizionato su un piedistallo troppo imponente, che al posto di valorizzarlo mette in mostra le sue carenze – tra cui l’assenza di Kayako, l’iconico spettro dai lunghi capelli divenuto simbolo della serie. Questo reboot, in sostanza, non sarà di certo ricordato nella storia del cinema, ma ha dimostrato di possedere delle qualità che, se sfruttate bene, potrebbero decisamente giovare al suo futuro.
“The Grudge è un thriller horror che sa come dirigere una storia investigativa, ma non come spaventare lo spettatore.”
Chiudiamo l’articolo ritornando alla nostra premessa. Cosa c’entrano gli ombrelli con The Grudge? Nel corso del film, la maggior parte dei personaggi si ritrova più volte a dover correre sotto la pioggia senza alcun tipo di protezione, finendo inzuppati dalla testa ai piedi. Osservando questa scena per la prima volta è normale provare un senso di disagio, dato che il temporale e l’umidità rendono l’ambientazione più tetra e inospitale. Dopo la seconda o terza volta che una persona dimentica di coprirsi prima di uscire, l’attenzione dello spettatore viene immediatamente catturata da questo dettaglio e l’atmosfera, da cupa, diventa immediatamente più assurda fino a sfociare nella comicità. Questo è esattamente il rischio che corre la pellicola nel riutilizzare più volte i jumpscare e i trope narrativi del suo genere: il pubblico ne rimane assuefatto e la sceneggiatura perde il suo significato, arrivando infine ad annoiare. Ecco perché serve innovazione, c’è bisogno di alimentare la tensione senza perdersi sempre nei soliti trucchetti. Diamo un ombrello ai poveri protagonisti, per una volta. Ne hanno bisogno, davvero.