I Am Not Okay With This Recensione

I Am Not Okay With This Recensione | Tutti hanno avuto una vita difficile al liceo. Tra compiti in classe, primi amori e cercare di sopravvivere dai bulli, non c’è mai tempo per riposarsi. E se questi problemi fossero solo di contorno per qualcosa di molto più grosso? Sydney è una ragazza di 17 anni, vive a Pittsburgh e ha un segreto. Più di uno in realtà. Tra punizioni a fine lezione, compiti a sorpresa e timidi baci in intimità, dovrà anche trovare modo di conoscere meglio se stessa ed il proprio passato. I Am Not Okay With This è una simpatica serie TV di 7 episodi, che sarà disponibile dal 26 febbraio 2020 su Netflix. Dai produttori di Stranger Things e dal regista di The End of the F***ing World nasce questo bizzarro show basato sull’omonima graphic novel di Charles Forsman. Con uno stile di fotografia, camera e sound design che ammicca a questi altri due titoli, si prospetta un mix esplosivo coinvolgente. Riuscirà la nostra ragazza a sopravvivere alla propria vita adolescenziale e, magari, a trovare il proprio posto nel mondo?

L’estetica rétro volutamente marcata trasporta in un periodo difficile da precisare: tra vecchie automobili vintage e smartphone abbastanza nuovi, non sarà facile stimare a quale decennio – ed ormai anche millennio – ci si riferisce. L’atmosfera che si crea durante la visione di ogni episodio è garantita da un lieve filtro che risulterà piacevole ed azzeccato soprattutto per racchiudere Sydney e Stan nelle loro scenette comiche. Sembrerà di star guardando una vecchia sitcom dei primi anni 2000, magari dopo pranzo o durante una merenda pomeridiana. Questo tipo di nostalgia viene rafforzato da due elementi che caratterizzano principalmente la serie: sonoro ed ambientazioni. Come ormai di consueto per ogni show targato Netflix, c’è sempre una canzone che dà inizio all’episodio ed una finale che lo chiude. Qui si va ben oltre questo criterio e, a lungo andare, potrebbe stancare il ripetuto utilizzo che, delle volte, supera la seconda traccia di fila. Apprezzato invece l’eccessivo utilizzo del giallo, piccolo omaggio alla copertina della graphic novel. Ogni scenario è ben costruito, seppur abbastanza anonimo e di poco spessore ai fini della trama, anche se ci sarà un oggetto che resterà sempre accanto alla nostra protagonista, più spiritualmente che materialmente: il diario. Questo simpatico libricino, dai colori esageratamente sgargianti per un pattern che si struttura più su toni lievi che accesi, sarà il compagno di viaggio per eccellenza e darà inizio ad ogni puntata, proprio come se Sydney ci stesse scrivendo sopra in quel momento. Otre quindi ad un’atmosfera ben strutturata, che però cede dietro l’ombra di show che prima di lei avevano già marcato il territorio di questo genere d’appartenenza, c’è anche il vestiario. Buona scelta dei costumi da parte della troupe che però esce dagli schemi delle volte, mentre altre semplicemente non rispecchia al meglio lo stereotipo che obbliga uno dei personaggi ad essere etichettato con determinati abiti. Infatti, sarà molto più semplice riconoscere e ricordare chi ci è stato presentato per il modo in cui si comporta, piuttosto che i nomi, fatta eccezione forse per i due co-protagonisti.

 

“Caro diario… ho combinato un guaio!”

 

Questa problematica dell’identità è un grande punto a sfavore per lo show. Anche se questo potrebbe essere più un errore del fumetto stesso, comunque non può essere accettato come base per una sceneggiatura. L’evoluzione dei personaggi è davvero travagliata, inesistente o “miracolosamente” veloce a causa dello scarso minutaggio di ogni puntata. Per questo motivo e per altri, sarà complesso il rapporto che legherà lo spettatore con la serie. Verranno inoltre toccati temi davvero sensibili ed estremante fondamentali durante un periodo così instabile della vita di una persona. L’adolescenza è ricca di fasi positive e negative che scalfiscono e scolpiscono la superficie di quello che da ragazzo diventerà poi un adulto. Sydney ha vari problemi da dover affrontare e – sfortunatamente ma anche umanamente – farà fatica a superarli tutti. Ottimo come insegnamento ma difficile da spiegare al meglio, data sempre la scarsa quantità di ore in cui possiamo vederla crescere, cadere e rialzarsi.

Il rapporto che si instaura tra  SydneyStan è davvero unico, tenero e comico per certi versi.

Costituito da un cast quasi del tutto giovanile, ad eccezione di qualche genitore o figura autoritaria di turno, l’intera opera grida a squarcia gola il proprio genere, ovviamente adolescenziale, che a tratti sfocia in un young adult, quindi non adatto veramente a tutti. Sophia Lillis e Wyatt Oleff riescono a garantire una complicità che già si era potuta assaporare nei due film di It, ormai veri e propri superstiti e temerari del problem solving. Anche se persino il più piccolo della troupe, Aidan Wojtak-Hissong, riesce a stupire, divertire e far riflettere con le poche scene di cui sarà protagonista, c’è qualcosa che non regge. La trama è estremamente velocizzata, dando sempre la sensazione di aver voluto iniziare un discorso, ma di non avere il tempo per concluderlo come si deve. Un vero peccato perché alcuni rapporti necessitavano di qualche ulteriore chiarimento per essere leggermente più realistici. Così facendo, invece, ci si ritrova a non capire bene alcune scelte dei personaggi che appariranno contrapposte allo stereotipo iniziale.

 

“Mi ricorda vagamente un’altra serie tv… ma quale?”

 

I Am Not Okay With This cerca di ritagliarsi quel poco spazio che resta nella grande selezione che ci viene offerta ogni giorno sulle serie TV adolescenziali. Ammiccando forse un po’ troppo ad altri show già acclamati ed ormai divenuti un must see di Netflix, si avrà sempre la sensazione di star vedendo qualcosa di trito e ritrito. Il problema non è tanto il tentativo di ricopiare quello che è “già stato fatto”, ma l’essere arrivati – con anni di ritardo – su un territorio ormai esplorato da Stranger Things e The End of the F***ing World. È questa l’impressione che suscita, sopratutto perché i professionisti che ci hanno lavorato sono sempre gli stessi. Come si potrebbe dire in casi del genere – per rifarci anche alle tipiche frasi dei professori – “buona l’intenzione… un po’ meno la realizzazione“.

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