Recensione Jojo Rabbit: il mio Hitler mangia unicorni

Recensione Jojo Rabbit | Quanto può essere forte un’ideologia? Non si tratta solo in credere ciecamente in qualcosa o qualcuno, ma anche mutare in essa, e da questa rinascere. Si avvinghia alle menti confuse, pervade l’animo con una verve quasi mistica e, nel peggiore dei casi, trova il modo di proliferare all’ombra delle insicurezze. La differenza tra abbracciare moralmente un concetto e lasciarsene ammaliare è un confine assai labile e scosceso. Quanto è bello correre su un sentiero già battuto, tanto da cadere per l’euforia? JoJo Rabbit non risponde certamente a domande esistenziali, ma è impossibile non farsi contagiare dalla sua caustica ironia. Se ne è parlato poco. Qualche pleonastica notizia lascia incuriosire i più per essere stato diretto, scritto, co-prodotto e interpretato da Taika Waititi e la sublime presenza di un cast stellare, tra cui Scarlett Johansson, ma fin ad oggi solo in pochi ne mormorano. La pellicola è ispirata a un romanzo del 2004 intitolato “Il cielo in gabbia” di Christine Leunens: opera profondamente introspettiva e drammatica. Tra neo candidature e premesse dissacranti, scendiamo nel particolare in uno dei film che, già all’alba del 2020, vorrei che fossero per sempre.

Le cronache nere di tutti i giorni ci urlano che nel mondo c’è bisogno di umanità, che non c’è lamento che possa udire una società sorda, né ego troppo grande che non possa inghiottire la libertà dei molti. Mentre il mondo piange sangue sull’inizio di un possibile conflitto tra Oriente e Occidente, c’era bisogno di Jojo Rabbit. C’era bisogno di Waititi. Proprio quando il male bussa alle porte dei più giovani e li plasma a sua immagine, ecco che appare il ritratto deforme della società: un luogo ove non è possibile sognare e danzare con il cuore. Il protagonista dello struggente racconto non è altri che il piccolo Jojo: un giovane nazista di dieci anni che si identifica nelle realtà in cui si trova, esasperandone la filosofia di vita. Siamo agli sgoccioli del Secondo conflitto mondiale, e non c’è spazio per le proprie guerre interiori. L’assenza del padre e la scarsa accettazione della comunità lo spingono in una rete fittizia di speranze e senso di appartenenza. Così il piccolo diventa un vero e proprio fanatico della figura del Führer: ne abbraccia i valori, ne giustifica ciecamente le ripercussioni e si lascia ammaliare dalle sue bugie. Tutto pur di compensare il vuoto lasciato da un’infanzia lacerata dalla guerra. La sua intera vita diviene un catalizzatore per tutta l’influenza nazista, mentre il quotidiano appare sempre più grottesco e profondamente satirico, responsabile un amico immaginario che mai vi aspettereste: Hitler, interpretato nientedimeno che da Taika Waititi in persona. La sua presenza serve da specchio per i pensieri di Jojo, dandogli man forte quanto serve, e alimentando in lui i pensieri già radicati nella sua mente. È come se il protagonista avesse bisogno di una qualche sorte di approvazione o sostegno di una figura paterna che, per assurdo, trova la sua esatta trasposizione nella rappresentazione maschile che più si assomiglia a un mentore. Paure e insicurezze lasciano marcire nell’animo del ragazzo la terrificante idea che questa malsana filosofia possa rappresentare una sorta di visione suprema, nonché lo stile di vita da intraprendere. Metteteci un vagonata di scene ad hoc di piena follia waititiana e il gioco è fatto: satira talmente grottesca da risultare esilarante. Un’alchimia perfetta.

Se da un lato la rassicurante, quanto distorta, concezione del reale di Jojo lo cambia giorno dopo giorno, la madre Rosie compensa l’odio con il bene. Interpretata da una premurosa Scarlett Johansson, ella fungerà per tutto il film da elemento di genuino amore per il ragazzo: una flebile voce in una Germania che appare più grigia di giorno in giorno. Rispettata e ammirata per la sua rettitudine, la donna è esasperata dall’idea che la nazione venga martoriata da guerre e crudeltà, e non nasconde mai al figlio i drammi della realtà in cui sono costretti a vivere. Attraverso piccoli gesti, estrapolati dalla palpabile drammaticità che il giovane è costretto a vivere, si smuove minuto dopo minuto l’ingranaggio emotivo che attanaglia il piccolo. Il culmine del suo cambiamento giunge quando egli scopre la presenza di una ragazza ebrea nascosta tra le pareti della camera della defunta sorella, Elsa Korr (Thomasin McKenzie). Sebbene la madre di Jojo abbia a cuore la situazione della giovane, non ne parlerà mai direttamente, conscia del fatto che le bugie enfatizzate dalla propaganda lo potrebbero far scivolare verso una decisione poco saggia. Qualora Jojo la denunci, la Gestapo eliminerebbe chiunque sia nella casa: compresi madre e figlio. Uno stallo. Questa sorta di convivenza forzata fa così emergere, in una serie di dialoghi dissacranti e aberranti, tutte le discrepanze in cui la satira waititiana si intreccia con la crudeltà storica. Conversazione dopo conversazione e lettera dopo lettera, gli insani stereotipi che il Reich aveva sfruttato come propaganda vengono ridicolizzati sul grande schermo, ed è impossibile non ridere durante dei dialoghi così intelligentemente orchestrati. Il punto è che si tratta di realtà nuda e cruda. Lo spettatore lo sa, o per meglio dire ci aspettiamo che lo sappia, ed è stato sbalorditivo accorgermi che intorno a me, la platea si alternava in un clamore di risate e lacrime, e in così pochi minuti di passaggio. La genuinità e l’amore di Jojo per Elsa bucano lo schermo dopo poche battute insieme e si fa strada nella mente del piccolo un infuso speciale fatto di passione e amicizia, capace di dissipare molti degli artefici radicati per anni nel suo indottrinamento. Messaggi chiari, semplici ed efficaci, che veicolano la genuinità della vita in un contesto tremendamente esasperato, esorcizzato solo da una satira sfrenata e brillante.

Forse in molti parleranno di Jojo Rabbit: il ragazzo che imprigionò la sua fanciullezza nella gabbia dell’ideologia, o forse no. Me lo chiedo retoricamente al termine di queste riflessioni perché so già dove si andrebbe a parare: politica. Il film non sarà compreso fino in fondo non perché ci manca il giudizio per farlo, ma perché viviamo in un periodo carente di umanità. Taika Waititi ci ha provato. Nel modo più dissacrante possibile ha enfatizzato ed esasperato uno dei drammi storici più radicati nel mondo, e lo ha fatto con una satira brillante e profonda. Vi diranno che non è sempre azzeccata e facile da comprendere, eppure perché intorno a me la sala piangeva e rideva ogni cinque minuti? Empatia. Eppure abbiamo riso a verità che, seppur calcate, rimangono l’esatta trasposizione del fine guerra. A livello tecnico la regia è invidiabile e centra sempre il bersaglio, complice anche una sceneggiatura che esalta la metamorfosi emotiva del protagonista, in una parabola di trepidazioni contrastanti. L’interpretazione e la recitazione degli attori, nessuno escluso, riesce a stemperare ogni situazione caustica su schermo. Mentre il mondo brucia e sprofonda nell’oblio, la casa di Jojo diviene un baluardo di genuinità e amore: il micro universo che racchiude un messaggio emozionante e pregno di significato. Il mio voto potrebbe sembrare una provocazione, ma è l’esatta consapevolezza dello stato d’animo post ripresa. Mentre il mondo in cui viviamo è ora teso e frantumato, Jojo Rabbit è la pellicola giusta al momento giusto; in cui conscio e subconscio lottano per mantenere in equilibrio la nostra umanità, che più volte verrà messa in discussione. Tra satira, fanatismo ed ilarità, si conclude il viaggio del piccolo Jojo, ma non prima di invitarci a ballare sulle note della libertà. Il voto è superfluo, vivetelo.

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