Poco meno di un mese ci separa dal rilascio di Death Stranding e, se pensiamo che l’opera di Kojima Productions è stata annunciata solo tre anni fa, ci rendiamo conto di quanto sia stato effettivamente breve lo sviluppo di un gioco che si preannuncia essere mastodontico. Nonostante sia ancora presto per dirlo con certezza, sicuramente la firma di Hideo Kojima garantisce la massima qualità possibile per la produzione. Ma chi conosce il padre di Solid Snake sa bene che le sue opere sono sempre qualitativamente e artisticamente diverse da quelle di altri Game Designer. Certamente abbiamo dinanzi un gioco in tutto e per tutto, motivo per cui non possiamo aspettarci un film o qualcosa di troppo lontano dal medium del gaming. Tuttavia, dal 2015 a oggi Hideo Kojima ha dimostrato di voler esprimere la sua creatività in un modo ancora più implicito rispetto quanto fatto finora con i titoli di Metal Gear, dal primissimo Metal Gear Solid per PlayStation One fino ad arrivare a Metal Gear Solid 4. Perché abbiamo escluso Metal Gear Solid V? Perché è il punto di partenza metaforico e simbolico di quello che sarà Death Stranding.
Partiamo quindi da un presupposto molto importante: è vero, The Phantom Pain è un gioco incompleto. Ma non è della separazione tra Hideo e Konami di cui vi parleremo, sebbene potremo comunque citare in causa lo sfortunatissimo P.T.. Tutt’altro, il centro di questa riflessione sarà il Kojima di MGSV, fortemente diverso da quello dei capolavori quali erano Metal Gear Solid e Metal Gear Solid 3: Snake Eater. The Phantom Pain è stato il palcoscenico di un cambiamento del Director, riflesso nella persona di Venom Snake. Il “dolore fantasma”, la mancanza dell’arto e del suo esercito che prova il protagonista, è la metafora di un Kojima che ha perso una delle più grandi serie del videogioco e il suo team di sviluppo. Ma è soprattutto il finale dell’epilogo della saga a delineare il suo radicale cambiamento interiore: Big Boss fa sapere a Venom Snake che non è altro che un fantoccio, una sua copia perfetta, ma che questo significa anche che il suo titolo passa a lui. Non c’è un Boss e uno Snake, ma sono entrambi la stessa persona. Questo passaggio della fiaccola è anche metafora di un Kojima che lascia a noi fan la sua eredità, il suo più grande tesoro, il titolo di Big Boss.
Bloccheremo immediatamente il nostro “fanboysmo” compulsivo per parlare di quello che, con tutta probabilità, sarà Death Stranding: una metafora della vita, della morte, dell’amore e dell’odio, del consumo e della ricostruzione. Sin dal primissimo trailer, quello dell’E3 2016, abbiamo scoperto come l’opera di Kojima avrebbe trattato di connessioni con la morte. A farlo capire sono i cavi neri collegati agli animali spiaggiati, carcasse sulla sabbia nera, che giungono da Sam, chiamati “Bridges” come “ponti”. Con il continuo rilascio di nuove informazioni abbiamo poi scoperto che, difatti, il compito del protagonista è proprio quello di ricostruire una società fratturata unendo le varie città dell’enorme open world. BB, il Bridge Baby, è il mezzo con il quale Sam può vedere le creature de “l’altra parte”: il simbolo della vita permette di connettersi all’oltretomba. Death Stranding, quindi, sarà fortemente incentrato su continue analogie e metafore, sfruttando in modo quasi compulsivo un simbolismo. Questo, peraltro, sarà sicuramente efficace per esprimere un concetto che, scommettiamo, era nella mente di Hideo Kojima da moltissimo tempo.
Ma a questo punto si giunge a un problema fondamentale, che potrebbe rappresentare un vero e proprio limite non tanto per il titolo o per Kojima Productions e neanche per le vendite, ma per il medium stesso. Death Stranding potrebbe rivelarsi essere anche più complesso di quanto noi stessi lo stiamo designando, e proprio per questo motivo molti giocatori potrebbero fraintendere o, peggio, non capire cosa stanno vedendo. Sebbene alla base c’è un gioco con un comparto narrativo e un vero e proprio gameplay, l’opera potrebbe essere di difficile comprensione alla stragrande maggioranza di utenti che, semplicemente, arriverebbero a ignorare o non cogliere il simbolismo tipico di Kojima. Va da sé che giunge spontanea la domanda “perché il successo di Death Stranding è necessario?”.
Il titolo di Kojima Productions potrebbe essere qualcosa di inedito per il videogioco, un grande passo avanti che porterà il medium a un punto di evoluzione, che lo renderà ancor più di prima espressione di arte pura. Va da sé che il consenso unanime del pubblico, incluso soprattutto la stampa specializzata, sarà decisivo per definire un cambiamento sia nello sviluppo che nella ricezione dei giochi stessi, che peraltro non potranno neanche più essere definiti tali. La rivoluzione che comporterebbe il successo di Death Stranding è un traguardo troppo grande da poter essere ignorato: il single player puro avrebbe la meglio sui “giochi intesi come servizi”; la cura nei dettagli otterrebbe maggiore rilevanza; l’assenza di microtransazioni potrebbe scoraggiarne l’uso. Insomma, il titolo di Hideo Kojima farebbe così da esempio a tutti gli altri futuri.
Al contrario, se Death Stranding si rivelasse un insuccesso, un flop, per un motivo o per un altro, il medium rischierebbe di involvere. Gli sviluppatori, spaventati da quello che potrebbe essere l’evidenza di una preferenza da parte dei giocatori, di produzioni incentrate su microtransazioni e servizi, potrebbero puntare maggiormente su di esse. Rischiamo così di perdere la lotta contro le loot box, gli acquisti di valute in-game, titoli di qualità scarsissima venduti a prezzo pieno. Insomma, non diciamo che Death Stranding sarà il salvatore del gaming, ma che potrebbe esserlo. Le nostre speranze, quindi, sono davvero molto alte, motivo per cui non vediamo l’ora di poterci mettere le mani per provarlo di persona. Ricordiamo ai lettori che Death Stranding arriverà in esclusiva PlayStation 4 l’8 novembre 2019. Restate connessi su VMAG per non perdere aggiornamenti a riguardo.
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