Batman: il cavaliere oscuro secondo Tim Burton

La parola ‘cinecomic’, nel mondo dell’intrattenimento, è oramai di uso comune e si riferisce prevalentemente ai lungometraggi che traggono ispirazione da fumetti di matrice Marvel e DC Comics, anche se in teoria il concetto dovrebbe applicarsi anche in toto ai film che traspongono comics qualsiasi. Da un po’ di tempo stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione del genere con due mega universi contrapposti che si danno battaglia a suon di incassi al botteghino: parliamo ovviamente del MCU (Marvel Cinematic Universe) e del DCEU (Detective Comics Extended Universe), che incarnano le due realtà produttive più grandi in questo campo. La particolarità maggiore di questa tipologia di pellicole è che è riuscita a reinventarsi nel tempo e tre tappe fondamentali piuttosto recenti di questa trasformazione sono: la trilogia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan, oramai considerata a tutti gli effetti come uno dei più alti del genere ma considerabile per certi versi un prodotto a sè stante; il piano cinematografico de La casa delle Idee che con Endgame e Spider-Man Far From Home ha chiuso uno dei periodi maggiormente floridi dell’azienda; e il Joker di Todd Phillips, che nonostante non sia considerabile un vero e proprio cinecomic canonico ha reinventato il concetto di fondo per costruire qualcosa di nuovo, andando a vincere anche il Leone d’Oro a Venezia. A fine anni ’80 era però tutto diverso e iniziavano ad uscire nelle sale i primi tentativi di creazione di lungometraggi con supereroi protagonisti e Batman di Tim Burton (seguito da Batman – Il ritorno, sempre dello stesso autore), uscito nel 1989, ne è un fulgido e obbligatorio esempio. Vediamo insieme perché è un vero e proprio pilastro del settore.

Il film, diretto dall’iconico e istrionico filmmaker, ha una sceneggiatura firmata da Sam Hamm e Warren Skaaren che ovviamente hanno ripreso i personaggi omonimi della DC Comics, sapendo adattarli con grande stile e personalità; vediamo subito come. La storia, anche se infatti riprende alcuni degli stilemi classici dell’Uomo Pipistrello, ne ha un po’ modificati alcuni punti come l’identità dell’assassino dei genitori di Wayne ( attribuita ad un giovane Joker in erba), delle figure assenti nel fumetto come Carl Grissom (Jack Palance) e Max Eckhardt (William Hootkins) e altri piccoli dettagli estremamente funzionali per la narrazione che non stonano per nulla con l’intero copione, ma che lo rendono ancora più efficace. Sembra quindi che il lungometraggio si sia mosso in una direzione opposta all’opera primigenia, ma in realtà, a parte qualche eccezione, abbiamo probabilmente la rappresentazione cinematografica più vicina allo spirito dei personaggi. In questo è mediata da uno stile che esprime al massimo la filosofia di Burton che, più che volendo differenziarsi con la sua versione, integra la sua visione in maniera coerente senza staccarsi troppo dal materiale originale.

 

Un eroe che vedremo in azione fin dai primi minuti del girato, ma che riesce a dare spazio anche alla controparte umana, andando a creare un perfetto bilanciamento.

 

L’espressione di ciò, oltre ad averne una prova nella Gotham City gotica e avvolta in un’oscurità perenne (che fece conquistare al film il premio come Miglior Scenografia agli Oscar), si ha anche nella psicologia dei due personaggi principali: il supereroe mascherato e la sua nemesi per eccellenza, che nonostante ricalchino perfettamente gli standard dei comics sia per quanto riguarda l’estetica che la personalità, hanno quel guizzo in più che solo un autore come il buon Tim ci poteva regalare. Un taciturno Bruce Wayne che è a disagio di fronte alla donna che frequenta, ma che è perfetto nel ruolo di miliardario e magnate grazie ad un interpretazione magistrale di Michael Keaton, che sa perfettamente scindere l’uomo dalla sua identità segreta. Un eroe che vedremo in azione fin dai primi minuti del girato, ma che riesce a dare spazio anche alla controparte umana, andando a creare un perfetto bilanciamento. Separati, ma uniti, l’armonia che lega il ricco filantropo a Batman fa capire come, nonostante siano due aspetti diversi di un’unica persona, sono costretti a convivere faccia a faccia.

Batman
“Danzi mai con il diavolo nel pallido plenilunio?”

L’antagonista merita un discorso a parte visto che è al centro di un dibattito oramai secolare ed è tra i contendenti per il miglior Joker cinematografico. È difficile stabilire quale effettivamente sia la più efficace rappresentazione del villain e anche la versione di Heath Ledger, contenuta nei film di Nolan, è particolarmente riuscita, ma una cosa è certa: questa incarnazione è la base per tutte le varianti che sono venute dopo quindi ha un importanza gigantesca, scopriamone il motivo. Jack Nicholson, grazie alla sua mimica e all’incredibile talento, plasma, con l’aiuto dello script, un cattivo folle e divertente come quello del fumetto, ma guidato da un piano filosofico e tutt’altro che banale: uccidere come espressione dell’arte e dell’avanguardia, ben rappresentato con la famosissima scena del museo, dove il cattivo, insieme ai suoi sgherri, vandalizza tutte le opere presenti nell’edificio, trasformandole a proprio piacimento. Le sue origini sono totalmente inventate dagli sceneggiatori e il criminale dietro il pagliaccio, Jack Napier, nasconde già i germi del male, che esploderanno con il noto incidente presso l’Axis Chemicals dove il malavitoso perde totalmente la lucidità e si tramuta nel noto clown. Quest’ultimo è un aspetto da non sottovalutare e che contribuisce alla caratterizzazione del personaggio.

 

Joker e Batman sono quindi due facce della stessa medaglia.

 

Un altro punto di forza di un nemico così carismatico però è il rapporto che ha con il suo avversario, animato da un unico comune denominatore: la violenza. Essa viene vista nel lungometraggio come insita nell’essere umano ed esplode a causa di un evento traumatico: se con l’acido il diabolico delinquente diventa un killer irrefrenabile, con l’omicidio dei propri genitori il piccolo Bruce Wayne reprime la vendetta e la brutalità e la usa come deterrente verso il male. Joker e Batman sono quindi due facce della stessa medaglia, tesi avvalorata dal fatto che nel film, come dicevamo prima, Napier uccide il padre e la madre dell’eroe, di fatto aiutandolo nella metamorfosi, e allo stesso modo il cavaliere oscuro fa lo stesso buttando il personaggio di Nicholson nel liquame. Il destino di due anime legate indissolubilmente come espressione atavica della lotta tra il bene e il male: questa è decisamente una delle migliori metafore messe in atto da Tim Burton, che si muove elegantemente su schermo anche grazie alle strepitose musiche di Danny Elfman, che giostra una colonna sonora dai temi cupi e malinconici, contestualizzata perfettamente nelle varie sequenze.

Batman del 1989 è il capostipite per eccellenza dei cosiddetti cinecomic: quest’ultimi, nonostante abbiano preso una piega decisamente diversa, devono moltissimo alla pellicola, che sperimenta a più livelli senza preoccuparsi del risultati e senza temere rivali, anche considerando il periodo. Tutto nasce da qui, dalla spigolosa Gotham City, fino al Joker esplosivo e diabolico di Nicholson, dalla statuaria e regale compostezza di Batman, alla corruzione dilagante che macchia la fittizia metropoli. Difficilmente troverete in un altro prodotto una storia così brillantemente narrata e diretta grazie alle sapienti mani del maestro Burton, che ci regala uno splendido gioiellino del cinema fumettistico dal quale tutti recenti adattamenti del genere in qualche modo potrebbero imparare qualcosa.

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