I magnifici, indimenticabili e pirotecnici anni ’80, da qualche tempo hanno fatto di nuovo capolino nel mondo dell’intrattenimento sia direttamente che indirettamente: basta pensare a Blade Runner 2049, Terminator – Destino oscuro, Top Gun: Maverick e molti altri lungometraggi che sono sequel degli omonimi classici di quel periodo, ma anche serie tv che citano apertamente le mode, i costumi e anche pellicole dell’epoca. In particolar modo ci stiamo riferendo, ovviamente, alla terza stagione di Stranger Things (qui trovate la nostra recensione), che come le precedenti due è piena zeppa di riferimenti agli spumeggianti anni di cui vi abbiamo già parlato. C’è però una scena in particolare che ha saputo davvero catturare gli appassionati (occhio che ovviamente è spoiler, ma non di trama, quindi state tranquilli): ad un certo punto dell’ultima puntata, due personaggi (chi l’ha vista sa a chi mi riferisco) cantano un’iconica canzone che apre e chiude La storia infinita, lungometraggio del 1984 di Wolfgang Petersen (Troy, Poseidon) ispirato all’omonimo romanzo di Michael Ende. Ma perché un pezzo è così rappresentativo ed evocativo? Per scoprirlo parleremo della sua realizzazione, per meglio comprendere cosa ha realmente significato con il suo contenuto.
L’opera, in maniera piuttosto interessante, si sviluppa su due piani narrativi differenti: da una parte abbiamo l’umano Bastian (Barret Oliver), che, per fuggire da alcuni bulli, si rifugia in una biblioteca e si immerge nella lettura di un libro; dall’altra vi è invece Atreyu (Noah Hathaway), un giovane eroe che è il protagonista del romanzo che sta leggendo il “terrestre”, incaricato di salvare il magico mondo di Fantàsia dall’enigmatico Nulla, che sta distruggendo l’intero reame, polverizzandolo e cancellando definitivamente i suoi abitanti. Più il racconto avanza, più impariamo a conoscere alcuni abitanti del luogo fantasy rappresentato, come anche alcune importanti tappe del viaggio del protagonista, intento a scoprire come impedire la scomparsa del regno. Nonostante la durata del film si attesti intorno ad un ora e mezza, e che parte degli avvenimenti si verifica sulla Terra, il tempo è sufficiente per mettere sulla scena sufficienti personaggi e situazioni da intrattenere degnamente il pubblico e farlo innamorare dell’universo in cui mano a mano si introduce.
Il primo impatto che si ha con il mostro è incredibile ed è dato dalla perizia tecnica ed estetica con il quale è raffigurato.
Tra le figure che maggiormente si ricordano della pellicola vi è uno dei draghi più simpatici e carismatici del grande schermo: Falkor, che aiuterà Atreyu in più di un’occasione, trasportandolo sul proprio dorso, alla velocità della luce. L’aspetto particolare della creatura è quello di essere estremamente simile ad un essere umano, sia per il fatto che possiede la parola, sia per il suo carattere dolce ed affettuoso. Oltretutto, il suo viso è molto espressivo, tanto da avere degli occhi che riescono ad esprimere più sentimenti che le sue frasi vere e proprie. Per darvi un’idea della sua riconoscibilità a livello fisico, ma anche caratteriale, il suddetto personaggio è stato citato persino in un episodio de I Griffin, in cui Peter, a causa del suo peso, fa precipitare il drago in picchiata, e questo è solo uno dei tanti esempi che può effettivamente dimostrare in che proporzione è riuscito ad entrare nell’immaginario collettivo e nella cultura di massa. Andando al di là delle sue caratteristiche peculiari, il primo impatto che si ha con il mostro è incredibile, ed è dato dalla perizia tecnica ed estetica con il quale è raffigurato. E non è un caso isolato.
Difatti, considerando anche gli anni di produzione, sia il reparto di animazione che di effetti speciali hanno fatto un lavoro eccelso, riuscendo a caratterizzare, nei minimi particolari, dalle piccole comparse che appaiono di sfuggita, ai territori (che non sono così tanti ma hanno il loro perché), fino ad arrivare alle figure primarie e comprimarie. Un plauso aggiuntivo va anche alla divisione trucco che in alcuni casi ha fatto davvero miracoli con alcuni tipi di individui. Non nascondo che vedendolo adesso viene un po’ da sorridere perché si nota la rarefazione e l’artificialità di alcune soluzioni, ma questo accade perché siamo abituati a degli standard decisamente superiori, dati dall’incredibile potenza che hanno i mezzi a nostra disposizione, cosa che non si possedeva all’epoca. Adesso quello che guadagniamo in performance lo perdiamo, un po’, a livello artistico e creativo, se solo si rimembra che alcune soluzioni sceniche e scenografiche erano fatte interamente a mano, con una artigianalità che adesso è scomparsa quasi del tutto.
La storia infinita è uno dei simboli del cinema degli anni ’80, nonostante non sia così tanto ricordato come altre icone di quel tempo.
La morale di fondo, o filosofia, decidete un po’ voi come chiamarlo, è però l’aspetto più duraturo all’interno della mente del pubblico: se tutta la parte estetica e artistica può abbandonare facilmente i nostri ricordi, difficilmente il messaggio può essere dimenticato e quello di questo lungometraggio ha una carica potentissima. Il suddetto contenuto tocca forse alcuni degli aspetti più importanti della nostra esistenza, visto che parla di speranza, ma anche dell’importanza dell’immaginazione e della lettura, che a qualsiasi età, continuano ad essere parte fondamentale della nostra cultura come esseri umani senzienti, colti e razionali. Sono stato criptico, lo so, ma sarebbe davvero un’oscenità rivelare a chi non ha visto l’opera, come tutto l’impianto sopra descritto si inserisce nella storia, per questo motivo lo lascio scoprire direttamente a voi. Ultimo elemento da non sottovalutare (che peraltro funge da collegamento con Stranger Things, in qualche modo) è la colonna sonora: quest’ultima, realizzata da Giorgio Moroder e Klaus Dordinger, con le caratteristiche note orchestrali dei sintetizzatori, è perfettamente rappresentativa del periodo. La traccia che invece appare nello show Netflix è scritta da Moroder (che ha prodotto anche il brano) e interpretata dal cantante inglese Limahl e riassume perfettamente lo spirito della realizzazione tramite il suo testo che richiama immagini fantastiche.
La storia infinita è uno dei simboli del cinema degli anni ’80, nonostante non sia così tanto ricordato come altre icone di quel tempo. Il fatto che sia quasi di nicchia, gli consente, per certi versi, di avere un impatto quasi maggiore di altre pellicole più sulla bocca di tutti perché è rimasto puro e libero da qualsiasi tentativo commerciale di rilanciarlo attualmente, Ciò è un bene, in quanto, sebbene subirà anch’esso le ingiurie del tempo, lo ricorderemo esattamente così com’è, con la sua struttura e contenuto, con il suo stile e la sua importante portata allegorica e metaforica che tanto impressionò 35 anni fa e che riesce anche adesso a farlo allo stesso modo.