Quando iniziò il viaggio nel cinema tarantiano probabilmente ero ancora un pargolo, ma non per questo l’influenza di un maestro del genere non mi ha scalfito. Così come i ragazzi della mia generazione, un pezzo di Quentin Tarantino si è impossessato nei nostri cuori già in adolescenza. Sarà forse quell’atmosfera a tratti esasperatamente teatrale del meta-cinema o i lunghi monologhi penetranti, ma il suo stile unico si è impossessato delle nostre vite e anche di chi ha lavorato con lui. Il multiverso di Tarantino, come lo definì lui stesso, non è altro che un lungo excursus nella mente del regista, ora per le influenze del suo passato, ora per quella enfasi da classico tonante in cerca di ribalta. Ma è proprio in C’era una volta a Hollywood che la sua filosofia cinematografica tocca le vette d’espressione tanto agognate del regista. Si chiude un cerchio, e non solo metaforicamente: così come nacque in erba la sua passione per il cinema grazie a C’era una volta il West, ora si conclude la sua missione sul grande schermo, ma non prima di regalarci un ultimo inno creativo. VI ricordiamo che l’opera approderà nelle sale italiane il 18 settembre 2019, quindi tranquilli: no spoiler!
La filosofia tarantiniana, sebbene risenta degli echi solenni ed altisonanti degli spaghetti western, trova la sua massima espressione nell’ideologia al professionalismo. Lo sforzo richiesto agli attori è difatti singolare e dal gusto raffinato, dato che si tratta di ruoli incisivamente calcati sul modus operandi del recitare, nel recitare. La teatralità scenica e il ricercato ricongiungimento con il tradizionalismo cinematografico hanno permesso di far sbocciare un’unicità narrativa senza trascorsi. Tutto può accadere ai personaggi della storia scritta da Tarantino, e questo è il bello e il brutto delle sue opere. La grande giostra di emozioni messa in moto su schermo permette un susseguirsi di colpi di scena struggenti, nei quali una sola frazione di secondo è sufficiente per destabilizzarci. La grande mano del fato del regista fa ombra su tutto ciò che è reale su schermo, ricordandoci quanto è effimero lo status quo della vita quotidiana e ci rispedisce a calci fuori dal mondo delle fiabe. Nessuno è esente dal proprio destino, ma non per questo si abbandona ad esso: gli ideali non si combattono e si difendono, almeno finché il maestro d’orchestra non chiuda lo spartito. Non esistono gli intoccabili, né tanto meno dei dettami insindacabili. Una filosofia ripresa solo in parte in quest’ultima pellicola, che decide di abbandonare un po’ della vera essenza del regista per concentrarsi su un aspetto prettamente nostalgico e di grande importanza: il western d’altri tempi.
Un Tarantino diverso da quello conosciuto, che si mette in discussione ed esalta le proprie radici.
La triade di celebrità che compongono gli scorci significativi della vita hollywoodiana rappresentata sono l’immancabile Leonardo Di Caprio, ormai un’ancora salda nel mare creativo di Tarantino, Brad Pitt, che in quest’opera in particolare brilla per interpretazione e carisma, e la bellissima Margot Robbie, il volto giovane di Hollywood che ama la bella vita e vive il suo sogno ad occhi aperti. La trama, sebbene ritragga spesso e volentieri scorci significativi della città di oltre 40 anni fa, si snoda intorno alle vicissitudini di Rick Dalton: attore in ascesa e in cerca di fama perpetua, aiutato dalla sua fedele controfigura Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt. Tra le verdeggianti collinette che ospitano personaggi pubblici di ogni genere, la vita scorre come “in un film nel film”: un marchio di fabbrica del regista, che sfrutta le abili doti del suo cast stellare per condire il panorama holliwoodiano delle più colorite sfaccettature. Dalla stressante vita da star allo struggente lavoro da stuntman, C’era una volta a Hollywood tesse filo dopo filo gli intrecciati destini di alcuni tra gli emergenti protagonisti del cinema, non risparmiando dolori e turbolenti sfoghi emotivi. Mettersi su piazza in un mondo così competitivo è stressante, ma c’è chi come Sharon Tate (Margot Robbie) la prende con leggerezza e spensieratezza, gioendo del lusso e della lussuria sfrenata del tempo e ricercando la celebrità in ruoli disimpegnati. Apparire sul grande schermo le fa brillare gli occhi, ma si mostra come una donna ingenua e attratta dagli aspetti frivoli della vita, anche se il suo personaggio non emerge sullo stesso piano degli altri due protagonisti: un vero peccato non sfruttare il suo viso sognante per intrecci narrativi più complessi. Non manca l’inserimento di altre star d’oro che fanno la loro apparizione nella pellicola, come Damian Lewis, Luke Perry o Al Pacino, anche se solo perlopiù lasciati nella penombra.
C’era una volta a Hollywood nel suo insieme conclude un’intera epoca del cinema pensato e diretto da Tarantino, anche se quest’ultima opera risente fortemente della sua ideologia più che della sua arte. Il titolo è infatti una pura esaltazione al citazionismo di quegli anni, strizzando ripetutamente l’occhio a vari elementi storici della Hollywood dei tardi anni ‘60. L’amore incondizionato e platonico del regista per il genere western ora trova il modo di sgorgare su schermo come un fiume in piena, regalando retroscena di un cinema ormai tramontato e quella prelibata recitazione da spaghetti west ripresa anche in Django. Mancano i monologhi eloquenti che hanno reso la scenografia dei film precedenti così contorti ed affascinanti, e si cede invece il posto ad un’atmosfera quasi romantica e romanzata, che lascia intravedere solo poche sontuose scene degne delle opere colossali del meta-cinema costruito in questi anni. Non confondete: qui non stiamo parlando di buono o cattivo film, la qualità di questa pellicola è oltremodo squisita, ma solo di un regista che appare visibilmente sottotono, pur di glorificare i tempi perduti. La raffinatezza tecnica e scenografica rimane, solo che lo sprezzante carisma che ci siamo lasciati alle spalle in The Eightful Eight o Django cede ora il passo ad una rappresentazione dolcemente malinconica e lontana dall’azione perforante delle scorse pellicole (salvo per alcune scene di puro brio).
Si conclude, dunque, un viaggio lungo ben nove opere che, nel bene o nel male, hanno ricalibrato e scosso il vetusto mondo del cinema. Tarantino ha ben dosato questa volta il suo estro creativo, bilanciandolo con una visione a 360 gradi di Hollywood sognante e quasi malinconica. Sopprimere, anche se in parte, l’ideologia ormai canonica del cinema tarantiniano non sempre ha giovato alla pellicola, evidenziando una sceneggiatura a tratti fin troppo sottotono. L’elegante rappresentazione del cinema western di quegli anni e una sublime recitazione da parte in primis di Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, elettrizza e avvolge lo spettatore in indimenticabili scorci di vita professionale. Si perde in parte nel finale la magia del regista, ma siamo comunque al cospetto di un’opera ben diversa dalle precedenti: un destabilizzante cambio di marcia poeticamente godibile, ma allo stesso tempo non del tutto familiare agli appassionati. Qui si scende nella profonda intimità della vita formativa del regista, e chi meglio di lui è in grado di dare lustro al sogno hollywoodiano? Nessuno.