Forse perché condizionati da una mentalità produttiva che fa della più bieca forma di consumismo il suo propulsore principale, siamo oramai abituati a ritenere che il modo migliore di consegnare un brand agli annali sia quello di attribuirgli un numero indefinito di sequel. L’ipotesi che un videogame di successo, o quanto meno apprezzato dalla critica, possa rimanere figlio unico è ritenuta di fatto inaccettabile anche dal più nobile dei produttori: in un mondo in cui un seguito non si nega neanche alla meno brillante delle IP, rinunciare ad ogni ulteriore opportunità di battere cassa sarebbe d’altronde assurdo e poco importa se non tutti i soggetti siano adatti alla serializzazione.
Eppure, la storia di quest’industria passa anche e soprattutto da gemme isolate, il cui valore appare ancora oggi intatto proprio perché mai alterato dalle suddette politiche commerciali… Siamo pertanto sicuri che ogni brand vada necessariamente spremuto fino ad esaurimento appeal per assurgere al rango di mito? Personalmente credo proprio di no e resto assolutamente convinto del fatto che nessun Assassin’s Creed, con tutta la nutrita progenie annessa, riuscirebbe mai a regalarmi le emozioni vissute nelle poche ore di vita passate nei mondi di Zak McCracken, Rocket Ranger, Skies Of Arcadia, Vagrant Story e Shadow of Memories. Sarebbe come mettere a confronto una storica cena nel più elegante dei ristoranti con una vita passata al Fast Food: quel genere di paragoni che non vale neanche la pena fare, se capite cosa intendo.
La lista dei “singles” che preferirei a qualunque saga odierna ha ovviamente dell’interminabile e stilarla per intero non cambierebbe il succo della riflessione, né lo scopo ultimo del concetto che ne scaturisce. Nei giorni in cui si parla tanto di evoluzione del medium, innovazioni tecniche, nuovi sistemi di interazione, il cambiamento di cui il sistema sembra avere più bisogno rimane, in tal senso, di ordine ideologico: ho difatti il sospetto che per entrare in una nuova Era del videogame occorra prima rivoluzionare il modo di approcciare il prodotto e restituire al pubblico il privilegio di mettere le mani su opere finite, che non debbano per forza nascere e vivere in virtù delle proprie estensioni.
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