Si riparte dall’inizio. Avrei dato del bugiardo e dello sciocco a chi, anche solo pochi mesi fa, mi avrebbe detto che sarei tornato a scalpitare come un bimbo per un film Pokémon. Venti anni fa sedevo in salotto con i miei genitori e divoravo avidamente ore ed ore del celebre Mewtwo colpisce ancora: una cassetta che, volente e nolente, fece irruzione nelle nostre case, per poi avvinghiarsi ai nostri ricordi. Nessuno in quel 1998 comprese fino in fondo che, proprio quell’anno, si sanciva l’ingresso ad onorem del brand videoludico nelle sale cinematografiche, attirando i più piccoli con le bizzarre siluette dei mostriciattoli, ma anche strappando un sorriso (e una lacrima) ai più maturi. L’evoluzione di questo mondo ha contagiato proprio tutti in oltre venti anni e, tra innovazioni tecnologiche e universi alternativi sempre più tangibili, ormai nessuno di noi può vivere senza sognare di farci parte, anche solo per un po’. Tra le diramazioni più impavide mosse dagli albori del marchio, vi è la storica filmografia, rigorosamente distribuita da Warner Bros., che negli anni è divenuta un’auto celebrazione della serie animata. Ma questa volta si è osato qualcosa di più: un lungometraggio concreto, che esula da qualsivoglia cartone o videogioco, capace di unire il quotidiano all’onirico. Da queste premesse sboccia così Detective Pikachu che apparve per la prima volta su 3DS nel 2016, ma che mai nessuno avrebbe detto che sarebbe stato la scintilla per un progetto così ambizioso.
La coraggiosa sovrapposizione del mondo Pokémon e quello reale è quantomeno iniziata come una crociata mediatica, che vedeva da una parte gli strenui difensori del mos maiorum del franchise, ancorati alla versione cartonesca della rappresentazione, ma non è l’unica campana. Da tempo ormai si mormorava dell’impellente bisogno del brand di adempiere ai sogni di milioni di appassionati: erigere un ponte capace di unire la nostra realtà con la brulicante schiera di creature tascabili. Si fece un primissimo passo verso questa direzione sperimentando le ambizioni direttamente sul campo con Pokémon Go, ma ora si tenta (finalmente) di far collidere fabula e modernità. Ryme City è dove tutto questo ha già trovato la sua perfetta armonia: una fiorente metropoli, eretta dalla fiducia incondizionata tra umani e Pokémon, ma, soprattutto, dal rispetto reciproco. Mentre nel resto dell’universo immaginifico di Satoshi Tajiri eravamo abituati a un rapporto prettamente antropocentrico, accentuato dall’idea del mostriciattolo concepito come “famiglio” e non sempre percepito come pari. La melodia nintendiana che ha reso il brand la massima espressione della filosofia basata sul rapporto amicizia-fiducia tra creature e allenatore, trova ora nella pellicola una sua apparente realizzazione. Tale cooperazione, narrata comunque dagli antichi testi presente nelle varie opere videoludiche diffuse da venti anni ad oggi, riesce dunque a creare un sistema egualitario e convincente?
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Ryme City è lo specchio del mondo utopico che sognano tutti: eguale e imparziale.
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Dileguato lo scetticismo iniziale, non posso che essere rimasto sorpreso ed affascinato nel constatare che tale sposalizio è davvero ben riuscito, sotto molteplici punti di vista. Sebbene a primo impatto possiate inorridire dinnanzi ad un selvaggio Aipom urlante o un Charizard con possenti fauci e una ruvida pelle draconiana, sappiate che, dopo pochi minuti, apprezzerete ancor di più ogni singola trasposizione. La maniacale cura nel dettaglio e l’eccellente studio di ricostruzione dei personaggi, ognuno con componenti organici completamente naturali, riesce a far digerire in perfetta tranquillità le decine e decine di razze diverse presenti nella pellicola. Quest’ultima riesce brillantemente a concatenare scena dopo scena un elevato numero di animaletti, garantendo un’eterogeneità di puro gusto: condimento necessario per formulare un’atmosfera vibrante e variopinta. Laddove il titolo convince per diversificazione e impatto visivo, non mancano però le delusioni per quanto concerne la credibilità e l’atmosfera. La cooperazione tra umani e Pokémon, sebbene forza motrice dell’interno benessere della città, non traspare mai in modo così memorabile e non sono riportate un numero così sensazionale di mansioni affidate ai mostriciattoli. Nel corso della trama, infatti, le scene di vita quotidiana (o veri e propri significativi mestieri spalla a spalla tra le due specie), non sono state approfondite nel mondo in cui si pronosticava. Le apparizioni e le sequenze in cui si intravedono questi attimi di spensieratezza si riducono a poco più delle dita di una mano, spesso frivole e liquidate in pochi secondi.
L’intrigante trama che sottende l’intero Detective Pikachu nasce dall’inaspettato intreccio tra due personaggi davvero inusuali e oltremodo bizzarri. Il protagonista, un impacciato ragazzo di periferia interpretato dal giovane Justice Smith, si ritrova improvvisamente orfano a causa di un misterioso incidente e decide di partire per ricongiungersi con il proprio passato. Confuso e arrabbiato per aver perso i contatti con suo padre, il ragazzo si ritroverà a rovistare tra le scartoffie accumulate nell’abitazione, ma non sarà il solo. Dall’ombra balza fuori un piccolo Pikachu con un buco berretto da detective, il quale, inspiegabilmente, riesce a parlare tranquillamente con il ragazzo, rivelandogli di essere in possesso del cappello di suo padre. Da qui in avanti inizierà la vera missione dell’inaspettato duo: scoprire come mai i loro destini si sono intrecciati in quella casa. Incontri esilaranti e oscuri risvolti macchiano il già difficoltoso percorso dei due, i quali tuttavia riescono a spalleggiarsi, anche quando viene a mancare il barlume della speranza. La coppia di improvvisati investigatori funziona egregiamente nel suo insieme, offrendo attimi di godimento puro e intrattenendo per tutta la durata dell’opera. Il topo giallo si conferma, anche dopo due decenni, una formidabile mascotte per il brand: adorabile quanto basta e irriverente quando serve. Da apprezzare particolarmente gli squisiti riferimenti alle leggende e al folklore che aleggiavano su alcuni mostriciattoli in particolare: un vero fiore all’occhiello per gli appassionati.
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L’irriverenza di Pikachu e il carisma di Bill Nighy reggono talvolta da soli le scene con poco pathos.
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Detective Pikachu centra il suo obbiettivo. Anche se la pellicola non sarà memorabile, rimane comunque uno dei migliori film d’intrattenimento del franchise degli ultimi anni. L’originalità e l’accostamento scenico di elementi così difficili fanno grande onore alla direzione di Rio Letterman, artefice di quel che potrebbe essere un sontuoso punto di partenza per i prossimi venti anni del franchise. Il cast vanta comunque di artisti di qualità del calibro di Ryan Reynolds, nei panni (o nella pelliccia) di un Pikachu mai apparso su schermo: irriverente e decisamente destinato a un pubblico più adulto. A troneggiare per carisma e fascino è però uno splendido Bill Nighy: un ricco idealista che ha plasmato la città sulla religiosa cooperazione tra i diversi esseri viventi. La regia non è invece stata così clemente con altri personaggi secondari che avrebbero meritato uno sviluppo ben più poetico di quello che si è intravisto: rilegati a stereotipi o a mediocri comparse in un film che meritava delle sfaccettature decisamente più curate. Siamo comunque pienamente fiduciosi riguardo al futuro del brand, qualora volesse proseguire in questa direzione, le basi sono più che solide e l’adattamento regge anche la critica del fan più cinico, ma ci aspettavamo sinceramente più pathos nell’intera opera. Che sia chiaro: Detective Pikachu è un mystery thriller coinvolgente e ben strutturato, ma nell’entropia generale la pellicola si perde nel glorificare alcuni suoi simboli storici e pecca dal punto di vista umano. Sarebbe bastato approfondire qualche altro scorcio di Ryme City o evitare quella patina di no sense volutamente ricercata, per garantire dettagli succulenti sulla filosofia alla base del legame tra umani e Pokémon.
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