La parola reboot è stata uno dei termini forse più utilizzati dagli addetti ai lavori e non, negli ultimi anni. Diverse saghe videoludiche, seguendo non meglio specificate esigenze di mercato e rinnovamento delle proprie idee e meccaniche basilari, hanno provato a cambiare sé stesse nella forma e anche, talvolta, nello stile e nel concept, finendo spesso per infilarsi in vicoli ciechi senza ulteriori possibilità di sviluppo, come nel caso di Devil May Cry, per la quale, dopo la pubblicazione dell’ultimo capitolo, sembra praticamente certo un ritorno alle origini. In questo e altri casi, un cambiamento che sembrava promettente, si è rivelato un’arma a doppio taglio, con la pubblicazione di nuovi capitoli che, pur essendo generalmente di buona fattura, spesso avevano in comune con i precedenti soltanto il nome, o poco più. La serie di Resident Evil ha compiuto questa operazione più volte: il quarto capitolo ha ufficialmente posto fine alla trilogia zombie, segnando l’avvio di una svolta action che ha fatto storcere più di un naso tra i fan. Sono stati quindi pubblicati tre episodi canonici e diversi spin-off, questi ultimi spesso persino più fedeli allo spirito originale della serie, come i due Resident Evil: Revelations. Dopo Resident Evil 6 la serie sembrava giunta ad un punto morto: i nuovi capitoli erano sicuramente di minore impatto rispetto ai precedenti, la strada intrapresa aveva diviso persino gli sviluppatori stessi, e si sentiva urgente il bisogno di un altro rinnovamento. Per questo, negli scorsi anni, hanno continuato a spargersi diversi rumor che volevano la pubblicazione di un titolo del tutto differente dai precedenti, e che addirittura ad avere per le mani il progetto in esclusiva fosse Microsoft. Resident Evil VII è stato poi annunciato allo scorso E3 ed ha segnato di nuovo uno spartiacque per lo storico franchise, ma non è stato ufficialmente presentato da Phil Spencer sul palco della conferenza Xbox, come qualcuno si aspettava. Con somma sorpresa di tutti, è invece saltato fuori durante lo show di Sony. In esclusiva. E, come se non bastasse, pensato e sviluppato come gioco in VR. A pochi mesi dal lancio, è tornato ovviamente a mostrarsi anche alla Gamescom, dove è stata la punta di diamante dell’enorme stand dedicato a PlayStation VR. Essendo il più richiesto dal pubblico e quello con le sessioni mediamente più lunghe, era davvero arduo, se non addirittura quasi impossibile, trovare il momento opportuno per testarlo. Eppure, giungendo in fiera un’ora prima dell’apertura e fermando chiunque allo stand ci capitasse a tiro che avesse indosso una maglietta con logo PlayStation, persone estremamente disponibili nonostante lo stress della marea di persone intorno a loro, siamo miracolosamente riusciti nell’impresa.
Meglio essere chiari fin da subito: giocare Resident Evil VII in VR è tutta un’altra cosa! Il punto di forza più evidente della realtà virtuale è modificare esponenzialmente il modo in cui il giocatore si relaziona, istintivamente parlando, con il mondo intorno a lui. Un titolo che è in grado di gestire perfettamente il ritmo di gioco è già a metà strada: fare in modo che l’esperienza sembri reale o quantomeno verosimile è il primo punto che bisogna rispettare se si vuole creare qualsiasi contenuto di questo tipo in realtà virtuale, e Beginning Hour ci riesce davvero bene. Azioni che normalmente sarebbe superfluo perfino descrivere, in VR acquisiscono tutt’altro spessore e riescono a restituire una consapevolezza unica dell’ambiente circostante. Giocare con il visore di Sony consente di vivere gli eventi non tanto dalla prospettiva di un giocatore esterno, ma soprattutto da quella di un vero e proprio osservatore interno. L’incedere ha i contorni di un horror psicologico, con un ritmo lento, ma non compassato, dove ogni elemento è studiato per mettere a disagio il giocatore e disorientarlo continuamente. Io, modestia a parte, non mi ritengo una persona particolarmente impressionabile, eppure, indossato il PlayStation VR e calatomi in quel mondo cupo e smorto, ho perso istantaneamente ogni residuo di coraggio e per dieci minuti mi sono ritrovato prigioniero degli eventi. Nelle prime stanze è facile dimenticarsi completamente che si tratta di un survival horror, e ci si ritrova a camminare in giro osservando oggetti ed aprendo cassetti ed ante, come per cercare di tastare fisicamente l’ambiente intorno a noi. Sono i primi rumori, le prime avvisaglie della presenza di qualcun altro in casa, a riportare alla realtà , e il tutto avviene in una frazione di secondo, facendoci istintivamente diventare più attenti a guardinghi. A partire da quel momento, ogni scricchiolio lontano, ogni passo dietro le porte o i muri, ed ogni rumore in generale è in grado di far sobbalzare. Ad un certo punto della demo, durante la sua ricerca di indizi, l’innominato protagonista trova una videocassetta che poi inserisce in un vecchio registratore. L’azione si sposta nel passato, e si assume il controllo di un cameraman che segue il produttore e il conduttore di un programma televisivo paranormale all’interno della stessa casa da egli esplorata fino a quel momento. Il senso di coinvolgimento provato in questa parte, in VR, è impressionante: in quel momento, la mia mente era davvero un tutt’uno con il mio corpo virtuale. Eviterò di spoilerare il finale, ma il tutto si conclude con un cliffhanger molto ben riuscito e che spinge a volerne ancora di più.
Conclusa la breve ma intensa prova e tolto il visore, mi sono reso conto che la partnership tra Capcom e Sony non è un modo per promuoversi a vicenda nè una semplice operazione commerciale, anzi, è una vera e propria necessità . È evidente già dopo i primi due minuti di gioco che il titolo diretto da Koshi Nakanishi e prodotto da Masachika Kawata viva (e vivrà ) letteralmente in simbiosi con la realtà virtuale, perché la ricostruzione del setting, l’esplorazione degli ambienti e il level design generale sono studiati per massimizzare il coinvolgimento se si indossa un visore. In molti, giocando, hanno riferito di aver provato sensazioni molto simili a P.T., il playable teaser dell’ormai defunto Silent Hills; gli avvenimenti, qui, rappresentano un’esperienza a sè stante, pensata innanzitutto per stabilire un punto di rottura tra il titolo a cui fa riferimento e la serie. La settima incarnazione di una delle saghe horror più note nella storia dei videogiochi, quindi, prenderà le distanze in maniera abbastanza netta sia dai tre episodi precedenti, che dalla trilogia originale, benché comunque da quest’ultima intenda recuperare l’aspetto fondamentale, la paura, ed evolverlo ai nuovi standard imposti dal passare del tempo. È ancora presto, però, per poter definire Resident Evil VII un reboot totale o solo parziale. Beginning Hour non è di certo una demo che fa sfoggio di particolari virtuosismi tecnici, e in VR i suoi piccoli difetti estetici si notano, se possibile, ancora di più. Dove questo breve prologo stupisce, però, è nel lavoro fatto sul comparto artistico, con uno stile fatto di chiaroscuri e filtri sgranati che contribuiscono a dare la sensazione di guardare dentro un vecchio kinetoscopio. Durante la prova non ho fortunatamente avuto alcun problema di motion sickness, visto il passo lento e lo spostamento di visuale a step di diversi gradi. Quest’ultima caratteristica, proprio come in Here They Lie, sembra funzionare piuttosto bene in un titolo horror, anche se al momento non sappiamo se anche l’intero videogioco di Capcom ne sarà dotato. Infine, da un punto di vista cognitivo può essere giusto un po’ straniante interpretare un personaggio che si muove in piedi stando seduti, ma alla lunga ci si fa l’abitudine. Insomma, se Beginning Hour già funzionava di per sè, in VR funziona decisamente meglio, e l’obiettivo, dichiarato da Kawata, di voler tornare a far davvero paura ai giocatori, non sembra affatto irraggiungibile. Anzi.