La VR è il metodo Ludovico del futuro

Prima si faceva tanto un gran parlare della violenza e dei videogiochi, di come questi istigassero le persone ad assumere comportamenti violenti e via dicendo. Sono state scritte fior di tesi sull’argomento, sia da per appoggiare questa teoria sia per smentirla, e probabilmente lo stesso destino toccherà alla realtà virtuale quando si sarà diffusa in modo capillare negli ambienti domestici.

Se prima un controller e un monitor bastavano a trasformare giovani e non solo in potenziali criminali, cosa potrebbe succedere con un visore che isola dal resto del mondo su cui viene fatto girare uno sparatutto realistico? La domanda è volutamente provocatoria, nel caso fosse un procedimento così diretto dovrei essere da tempo un pilota professionista di kart, ma non è questo il punto.

Invece di intraprendere la prevedibile crociata contro la realtà virtuale, perché non chiedersi cosa potrebbe invece fare la VR per limitare o prevenire episodi di violenza? Partiamo dal presupposto fondamentale che la VR è in grado di immergere completamente l’utente in qualsiasi situazione: cosa succederebbe se un programma VR ci mettesse nei panni della vittima piuttosto che in quelli del carnefice?

L’idea è tanto interessante quanto inquietante, in base al tipo di esperienza proposta potrebbe rivelarsi una vera e propria terapia d’urto in pieno stile Arancia Meccanica, pertanto deve essere sviluppata con cura e cognizione di causa. Non si vuole fare i piccoli sadici vendicatori, l’idea è più o meno la stessa che sta alla base delle pubblicità-shock che si impiegano per sensibilizzare le persone su temi particolari, con il “vantaggio” di non essere davanti a un monitor o un poster ma di trovarsi dentro alla vicenda.

Facciamo un esempio “soft”. Immaginiamo un gruppo di ragazzi intenti a prendere un giro un loro compagno. Tramite VR è possibile sperimentare facilmente cosa si prova a stare dalla parte della persona “aggredita” e, nella migliore  delle ipotesi,  convincersi a non adottare questo tipo di comportamento dopo aver toccato con mano i disagi che comporta un’esperienza simile. Ma ci tengo a precisare, anche se quello appena fatto è un esempio piuttosto innocuo, questo genere di impiego della VR è da affidare solo ed esclusivamente a specialisti del settore. Questo tipo di applicazione non può passare per le mani di uno sviluppatore dell’ultimo minuto, pena l’incorrere nell’effetto opposto a quello cercato.

In ogni caso, resta sempre il fatto che non è tanto il mezzo in sé a essere pericoloso, ci sono mille fattori da tenere in considerazione quando si manifestano episodi di violenza, in certi casi è troppo comodo dare la colpa semplicemente ai videogiochi o alla VR. A tal proposito, concludiamo questa rubrica proprio con una citazione di Kubrick in merito alle accuse mosse al suo celebre film già citato in questo post:

Dare la responsabilità all’arte delle cose che accadono nella vita reale significa, per me, vedere le cose nel verso sbagliato. L’arte dà nuova forma alla vita, ma non crea la vita. Oltretutto, attribuire potenti capacità di suggestione a un film significa essere in disaccordo con l’opinione scientificamente accettata secondo la quale le persone, anche se in stato di ipnosi, non possono essere indotte a compiere azioni contrarie alla loro natura.

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