Quante volte vi abbiamo parlato di persone entusiaste della realtà virtuale rimaste estasiate dopo aver provato Oculus Rift? Quante volte avete sentito gli addetti ai lavori parlare delle meraviglie della realtà virtuale, e quante altre avete sentito fantasticare i profani sulle possibilità che si aprirebbero con questa nuova tecnologia?
Oggi, rispetto al passato, i pareri positivi sulla materia si moltiplicano a vista d’occhio, sia fra gli sviluppatori sia fra i potenziali futuri consumatori, ma del resto, se la VR ci ha messo tutto questo tempo per raggiungere il successo su larga scala, un motivo ci sarà stato.
No, non parliamo di limitatezza tecnologiche o di costi troppo, alti, che pure hanno avuto il loro bel ruolo nell’impedire che la VR diventasse un fenomeno di massa negli anni passati. Senza voler scavare in reperti eccessivamente sconosciuti del passato videoludico, basta che pensiate al Virtual Boy: un’idea potenzialmente interessante stroncata da limitatezze hardware non indifferenti, prima tra tutte uno schermo non a colori ma “in scala di rosso”.
È comprensibile voler limitare i costi di un dispositivo pensato per l’intrattenimento e per lo più destinato ai più giovani, ma allo stesso tempo non è neanche un segreto che il rosso sia un colore particolarmente “stancante” per la vista. Non stupisce troppo, quindi, che questo primordiale headset con un display così strutturato non abbia avuto un grande successo.
Nella storia della tecnologia, ovviamente, questo non è l’unico esempio di un tentativo fallito di portare la VR sugli scaffali per il grande pubblico. Ma volendo avvicinarci a tempi più recenti, anche quello che è il padre del visore più discusso del momento non ha avuto un esordio proprio felicissimo, almeno se si considerano le parole di Virginia Heffernan.
Secondo la scrittrice, il DK2 è un grandissimo passo in avanti per la compagnia. Allo stato attuale è un dispositivo coinvolgente, e rivoluzionario, ma ciò che lo distingue dagli altri visori che nel passato più o meno recente hanno tentato di raggiungere questo risultato non sono le sue specifiche tecniche.
“Ciò che rende il DK2 un dispositivo diverso da tutti gli altri” afferma Virgina senza peli sulla lingua “è il fatto che non fa venir da vomitare.“
Esatto, la chiave del successo del visore di Palmer Luckey starebbe proprio nel fatto che ha raggiunto un “equilibrio” tale da non fare sentire male le persone che lo provano, cosa che è invece accaduta a Virginia due anni prima col primissimo prototipo di Oculus. Del resto, come darle torto? Se  un dispositivo causa malessere, a prescindere dalle sue caratteristiche tecniche, come si può pensare di proporlo al grande pubblico?
Un dispositivo con cui le persone possono sentirsi a proprio agio vale più di qualsiasi tecnologia avanguardistica.