Alcuni di noi sono assassini a sangue freddo. Altri, invece, soldati che sparano e tritano ossa durante qualche guerra storica. Altri ancora sono animali che corrono per la foresta saltando tra alberi. Molti sono stati, in un modo o nell’altro, nello spazio. Ci sono perfino alcuni di noi che riescono a fare a pugni con Superman. Certi, però, preferiscono dilaniare carni impugnando spade o asce. Poi ci sono loro, superstiti di un tempo lontano, che ancora provano piacere nel creare città e comandare eserciti, perché non sono tipi d’azione, no, loro preferiscono guardarlo dall’alto il campo di battaglia. Tutti, comunque, che abbiamo in mano un joypad o un mouse, siamo quello che vogliamo.
Questa riflessione, fissatasi in testa mentre giocavo le prime ore di Detroit: Become Human, è tanto banale quanto veritiera. Non esiste medium più immersivo del videogioco. Nonostante la narrazione letteraria e cinematografica siano musa ispiratrice, molte volte, del Videogioco, quest’ultimo porta ad un altro livello il coinvolgimento che scaturisce dal rapporto fruitore-personaggio. In realtà, però, non è questo il tarlo che più ha scavato nella mia corteccia, poiché per quanto io possa avere ragione, non ho la competenza necessaria ad analizzare (in un testo così breve) un argomento tanto grande e complesso. Quello che maggiormente mi ha colpito, invece, è la mia ottusità nel non vedere l’altro lato della medaglia: non è il Videogioco che cresce in profondità, siamo noi che vogliamo narrazioni sempre più coinvolgenti.
Come una qualunque logica di mercato, i videogame adeguano l’offerta in base alla domanda. Il mercato chiede il competitivo? Nascono i MOBA e gli eSports si affermano prepotenti. I giocatori vogliono sempre più Battle Royale? Facciamo Fortnite, PUBG, H1Z1 e una serie di copie. È pura e semplice logica. Quindi ora, seguendo questo ragionamento e guardando l’offerta attuale (God of War, Detroit: Become Human o Call of Duty WWII), si chiedono sempre più trame strutturate, campagne single player strappalacrime e character complessi? Per chi vi scrive, la risposta è nì. In parte no, perché guardando attentamente questa richiesta da parte degli utenti è sempre stata una costante parallela alle altre. C’è il videogioco “intellettualmente impegnativo” e quello meno, pertanto metterli sullo stesso piano sarebbe un errore. Dall’altra parte, però, la saturazione raggiunta dal mercato del gaming ha fatto sì che tutto il sistema si muovesse verso la qualità, narrativamente e tecnicamente. Anche guardando la situazione dalla parte dell’industry, non del consumatore, ci sono software house che preferiscono un approccio più leggero e altre che invece puntano allo spessore narrativo. La voglia del “consumatore videoludico” di immergersi in una storia, quindi, prescinde ogni struttura di mercato, senza però essere completamente fuori dal mondo.
La vera domanda che mi sorge, ora, è un’altra: fin dove può spingersi il videogioco? Ragionando a freddo, il medium ha raggiunto il livello di ogni altro. Tutti i casi di narrazione possibile sono stati esplorati, o perlomeno toccati, una volta. Manhunt, Hellblade: Senusa’s Sacrifice e il prossimo Agony toccano argomenti “poco ortodossi”. Eppure lo fanno con la stessa serietà di ogni altro media. Il sesso non è più tabù e (per quanto innaturale possa sembrare) viene spesso rappresentato. La politica e il razzismo non sono più argomenti “troppo seri” per poter essere trattati da un videogioco. La bolla religiosa, per quanto difficile sia trattare un tale argomento, è stata bucata e il fanatismo rappresentato (Far Cry 5). Dire fin dove può arrivare il videogioco è difficile, poiché proprio la natura interattiva del medium non permette di capirne le complete sfumature. Si può rappresentare il terrorismo o il fanatismo religioso dalla parte del “cattivo”? Certo, lo si fa (Modern Warfare 2), ma crea polemica. Perché sembra quasi vero. Un libro, per quanto ben scritto, avrà sempre la distanza data dalle parole scritte sulla carta, un videogioco no. La sua stessa natura lo frena, come un Icaro moderno.