Vizio di forma: la recensione di VMAG

Una storia d’amore travestita da detective story o una detective story che prende le mosse da una storia d’amore? Questa è solo una delle tante domande senza risposta che Vizio di forma, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, suscita nello spettatore, tenendolo incollato alla poltrona grazie a una trama serrata, una fotografia psichedelica, un’interpretazione da Oscar e una colonna sonora provocante ed evocativa.

Vizio di forma è la nuova pellicola di Paul Thomas Anderson, il regista che molti di noi hanno amato per Magnolia (a chi non è mai capitato di citare la pioggia di rospi?), ma che più recentemente si è distinto per l’eccellente messa in scena di The Master, colpo di fulmine tra Anderson e Joaquin Phoenix (protagonista ripreso in Vizio di forma) ed eccellente performance dello scomparso Philip Seymour Hoffman. Dopo i film corali Boogie Nights e Magnolia, e quelli duali come The Master, Anderson ritorna a una pellicola quasi totalmente incentrata sul solo protagonista, un Joaquin Phoenix che si confronta con un ruolo meno impegnato rispetto a quello di The Master ma altrettanto impegnativo.

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Il detective Larry “Doc” Sportello deve fare i conti con il vizio intrinseco (l’”inherent vice”, da cui il titolo originale del film) del rapporto amoroso, ossia tutto ciò che esso comporta e che, nel suo particolare caso, include anche scomparse, omicidi, droga, fumo, sesso e chi più ne ha più ne metta. Il film si articola proprio come una detective story, rievocando la trama complessa e a tratti confusionaria dei film dei fratelli Coen, ma prendendosi molto meno sul serio, grazie alla collocazione spazio-temporale, una fittizia Gordita Beach anni ’60, vissuta attraverso le sensazioni allucinate di hippie “fattoni” (come più volti definiti nella pellicola).

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Il film prende il via quando Doc (Phoenix) riceve la visita inaspettata della sua ex ragazza Shasta Fay (la semi-sconosciuta Katherine Waterston), ora invaghita del potente imprenditore edilizio Mikey Wolfmann (Eric Roberts) e preoccupata che la loro vita sia minacciata dalla moglie di lui con tanto di amante. Quando i due scompaiono, Doc si getta subito nelle situazioni più disparate, guidate da un filo logico non sempre facile da seguire e dove la bizzarria la fa da padrone. Entra infatti in scena un caleidoscopio di personaggi, tutti da Premio Oscar, con ruoli più o meno significativi, ma fondamentali all’atmosfera della pellicola e al percorso zigazagante del protagonista: dall’eccellente Josh Brolin nel ruolo del (solo apparente) antagonista Detective “Bigfoot” Bjornsen a quello dell’avvocato “sciallato” Benicio Del Toro, all’amante occasionale (e colletto bianco) Reese Witherspoon, senza dimenticare l’irrinunciabile Owen Wilson nel ruolo di un’ingenua spia sassofonista ex eroinomane.

[su_quote]La California degli anni ’60, un mondo perduto dove più che la giustizia contano l’amore, la lealtà, l’amicizia[/su_quote]

Come da premesse, il surreale prende spesso il sopravvento, tra colori esplosivi e sequenze fumose (nel senso di filtrate proprio attraverso la coltre di fumo aspirato da Doc), mentre la musica invade la scena quasi mettendo in secondo piano i dialoghi tra i personaggi. Vizio di forma è infatti la terza collaborazione, dopo Il petroliere e The Master, tra Anderson e Jonny Greenwood, quest’ultimo alternato, nella pellicola, da chicche musicali come le performance di The Royal Philharmonic Orchestra, Neil Young, Can, The Marketts, e altri ancora. Una grandiosità della colonna sonora che affascina ma non stupisce per chi ha già apprezzate le precedenti collaborazioni di Anderson, come quella con Jon Brion per Ubriaco d’amore o quella con Aimee Mann (e Brion) in Magnolia.

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Anderson si confronta con un nuovo progetto difficile e complesso, che dal romanzo di uno scrittore affascinante come Pynchon porta sul grande schermo un film visionario e surreale, dove, proprio come nel libro, non conta tanto la trama (fumosa anch’essa), ma la resa della California degli anni ’60 come un mondo perduto dove più che la giustizia contano l’amore, la lealtà, l’amicizia. Valori ampiamente incarnati da Doc/Phoenix, che con ingenuità e temerarietà si getta alla ricerca della ragazza scomparsa, guidato dalla nostalgia per un passato magico, dominato da tavolette Ouija, mare e raggi di sole tra i capelli, libertà allo stato puro e che, alla fine di tutto, sembra destinato a tornare. Il regista di Magnolia non delude, e porta in sala una piccola perla del cinema contemporaneo, evocativo e viscerale allo stesso tempo, con scene che entrano dentro e colpiscono allo stomaco, come quella della tavoletta Ouija appunto o come l’unica (inaspettata e intensa) scena erotica. Sicuramente un film non per tutti: ma chi è in grado di capirne la grandezza, lo adorerà.

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